Artribune, per la penna del suo direttore, Massimiliano Tonelli, ha avuto il merito di aver sollevato, in queste settimane, una discussione importante: che cos’è arte pubblica oggi, e chi decide i parametri di cosa va messo (temporaneamente) nelle piazze italiane?
Lo ha fatto, notiamo per inciso, con il consueto garbo e la delicatezza che lo contraddistinguono, impallinando non solo la gestione di una delle piazze più belle d’Italia, quella del Duomo di Firenze, da parte della Regione Toscana, colpevole di aver confezionato “un minestrone di scadente arte pubblica” a pochi passi dal Duomo, dove sono state malamente accozzate e affastellate, in un guazzabuglio “di pressappochismo e mancanza di rispetto”, due installazioni diverse, quella di Emanuele Giannelli con i suoi Giganti con tanto di visore che guardano – o non guardano? – il cielo, e una “panchina luminosa” di Marco Lodola; ma anche i due malcapitati artisti, rei di non essere all’altezza, come lavoro e come carriera, a parere di Artribune, del luogo in cui le loro opere sono state installate.

Ora, che le opere siano affastellate, non c’è dubbio (se n’è lamentato lo stesso Lodola), e diamo ragione a Tonelli; ma qui finiscono le convergenze. Tonelli non si limita infatti a discutere l’allestimento, ma lo stesso diritto degli artisti, o perlomeno di artisti al loro “livello di carriera”, di esporre “in questo meraviglioso angolo di Firenze che dovrebbe essere lasciato in pace o affidato ad artisti di indiscussa carriera internazionale”, invocando anche, a garanzia della qualità delle scelte, “un curatore dall’eccellente curriculum”, affiancato se possibile “da un comitato scientifico autorevole” con tanto di “bando di evidenza pubblica”.
La questione non è nuova, ma va detto a onor del vero che, quando viene fatta ad personam, o meglio ad artistam, impallinando questo o quell’artista, reo di non far parte del “giro figo” e di non avere dietro le spalle sufficienti curatele “importanti” – o, aggiungiamo noi, gallerie importanti, cioè influenti nel sistema –, per assurgere al diritto di esporre, pur temporaneamente, in una piazza prestigiosa, sentiamo quantomeno una gran puzza di bruciato: chi decide, infatti, cos’è degno di essere esposto (temporaneamente) e cosa no?

Dei curatori, d’accordo, ma quali curatori? Magari gli stessi che per anni hanno fatto finta di non capire e non vedere che il sistema stesso stava crollando sotto le dinamiche del suo stesso elitarismo amicale, fatto di esterofilia e di sistematica incapacità di relazionarsi con il pubblico? O forse invece quelli che non hanno riconosciuto l’avvento della street art, l’unica forma d’arte che si ponesse come arte pubblica per eccellenza, se non quando ormai era dilagata in tutto il mondo? O ancora quelli che, a Milano, si sono trovati già confezionati uno dei murali più incredibili realizzati da Blu, lo street artist più radicale al mondo che esista, che rappresenta un’orgia e abbuffata di cocaina come metafora della prostituzione del turbocapitalismo moderno (e dello stesso sistema dell’arte), dipinto sulla facciata di quello che dovrebbe essere il più importante museo di arte contemporanea, il Pac (lo commissionammo io e Sgarbi a Blu una ventina d’anni fa, in occasione della prima mostra pubblica di Street Art in Italia, “Street Art Sweet Art”), e lo lasciano cadere a pezzi perché incapaci di gestire la complessità del contemporaneo al di fuori dalle logiche tradizionali del sistema? Chi dovrebbe decidere, in sostanza, cos’è arte “degna” di entrare in una grande piazza, e cosa non lo è? Davvero pensiamo che, affidandolo a “un curatore” e a “un comitato”, ne nasca per forza della buona arte per il pubblico?

Giuseppe Veneziano e il “Daspo” urbano per gli artisti
Già alcuni anni fa, allorché Giuseppe Veneziano, artista dal talento corrosivo e ironico e dallo stile inconfondibile, che si è fatto strada per suo conto, al pari del suo collega Jago, al di fuori dei giri e delle gallerie “che contano”, aveva allestito una sua mostra (“The Blue Banana”) nella piazza di Pietrasanta (come oggi lo fa ottimamente un altro artista che si sta facendo strada fuori dai giri fighetti, Filippo Tincolini, attirando entrambi una valanga di selfie e di foto sui social), una parte del mondo dell’arte, quella con la puzza sotto il naso e che crede di dover avere sempre l’ultima parola su ciò che può andare e ciò che non può andare, aveva auspicato addirittura una sorta di “Daspo urbano” per quegli artisti – a cominciare proprio da Veneziano – che non meritavano di “contaminare” le belle piazze italiane con le loro opere. Anche lì, la solfa era la stessa: ci vorrebbe un “comitato”, naturalmente di critici “certificati” dal sistema, per decidere chi ha diritto e chi non ha diritto di esporre.
Ora, il problema è che pretendere l’istituzione di un “comitato scientifico” per decidere un’installazione temporanea di una scultura in una piazza senza prima intenderci su cosa sia oggi un monumento pubblico, senza che ci sia un minimo di convergenza, anche tra gli addetti ai lavori che di tale supposto “comitato scientifico” dovrebbero far parte, sul senso stesso del fare arte pubblica oggi, su come andrebbero gestite le città e le piazze italiane non solo rispetto alle installazioni d’arte contemporanea, ma rispetto a quel coacervo indistinto di segnali, insegne, scritte, gazebo, comunicazioni pubblicitarie, palchi e palchetti e banchetti e stand vari approntati un giorno sì e uno no per eventi temporanei, quasi sempre a pagamento (dunque piazze ed edifici pubblici prostituiti alla griffe di turno in grado di pagarne le spese, a suon di eventi, cartelloni iperinvasivi sulle facciate, immensi palchi per concerti piazzati davanti a monumenti storici e altre corbellerie contemporanee), e ancora elementi dalle fogge più disparate facenti parte del cosiddetto “arredo urbano”, mutevole e capriccioso proprio come le scelte politiche che impongono di volta in volta l’avvicendamento di questo o di quell’assessore – ebbene, pretendere l’istituzione di “comitati”, in queste condizioni, troviamo che sia quantomeno velleitario.

In una celebre chat culturale, Arte Italiae, creata e condotta dal bravissimo presidente Angelo Argento – bravissimo per aver saputo mettere insieme oltre 500 operatori dell’arte italiana per provare a discutere e a ragionare senza insultarsi o denigrarsi sui temi più caldi del contemporaneo, e di farlo con un intero circuito di chat che spaziano dai più ampi temi culturali ai diritti – beh, in questa chat, dicevo, si è provato e si sta provando, in questi giorni, a discutere di questo: su cosa voglia dire fare arte pubblica oggi e su quali criteri dovrebbero essere rispettati per farlo. Ne sono emerse posizioni diverse, ma lo sforzo di cercare una riflessione, dei punti di convergenza, è già per lo meno encomiabile.
L’unica arte pubblica? La street art
Già, perché, dopotutto, che cos’è un monumento, oggi? A che cosa serve? Se fino all’Ottocento e ai primi del Novecento lo statuto di monumento o scultura pubblica aveva una sua grammatica precisa e serviva a uno scopo (celebrare un uomo illustre, un avvenimento, un valore su cui si fonda la comunità o la nazione), dalle avanguardie in poi, quello stesso concetto è sparito, si è letteralmente dissolto: cosa dovrebbe celebrare, oggi, una scultura pubblica? È entrata, anch’essa, a far parte del generico guazzabuglio di elementi d’arredo o dei diversi e contraddittori segnali urbani? È pura decorazione? Ha assunto un senso di mera spettacolarizzazione, di distrazione di massa per il passante frettoloso o annoiato? (“Nella città ci annoiamo”, scrivevano oltre settant’anni fa i situazionisti nel loro Formulario per un nuovo urbanesimo: “Non c’è più il tempo del sole. Tra le gambe delle passanti i dadaisti avrebbero voluto trovare una chiave a stella e i surrealisti una coppa di cristallo. Tutto questo è andato perduto. Sappiamo leggere sui visi tutte le promesse, ultimo stadio della morfologia. La poesia dei manifesti è durata vent’anni. Ci annoiamo nella città. Bisogna faticare molto per scoprire ancora dei misteri sui cartelli della pubblica via, ultimo stadio dell’umorismo e della poesia…”). O invece ha, o può ancora avere, l’arte pubblica, un senso etico, morale, civile, politico? Queste sono le domande che dovremmo farci, prima di pensare alla costituzione di presunti comitati.
“Oggi l’unica arte pubblica (purtroppo) è la street art”, scrive su Arte Italiae il direttore di Brera, Angelo Crespi, augurandosi una moratoria sulla presenza di sculture contemporanee nelle più belle piazze italiane, che “non meritano di essere deturpate da enormi defecazioni (vedi Urs Fischer”) o da altre monumentali boutades, come “il fallo” di Gaetano Pesce in piazza Plebiscito a Napoli. “Tutti sanno”, scrive Crespi, “che pure per decidere dove dovesse essere posto il David fu allestita una commissione composta tanto per dire da: Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Leonardo da Vinci, Pietro Perugino, Lorenzo di Credi, Antonio e Giuliano da Sangallo, Simone del Pollaiolo, Andrea della Robbia, Cosimo Rosselli, Davide Ghirlandaio, Francesco Granacci, Piero di Cosimo, Andrea Sansovino. Tutti uomini a noi superiori”. Già, perché la questione torna di nuovo lì: chi decide, allora, cosa va esposto oggi nelle piazze, e in base a quali criteri?

Thomas J Price a Firenze, i cortocircuiti del contemporaneo
Mi viene ripetuto che Sergio Risaliti, ottimo direttore del Museo del Novecento di Firenze, non ne sbagli una; e oggi ha appena piazzato una nuova, grande scultura, dell’artista britannico Thomas J Price, al centro di piazza della Signoria. Una giovane donna sovradimensionata, “immortalata in una posa che nulla ha d’eroico o di terribile, ma di normale quotidianità”. “Le sue dimensioni monumentali, la sua postura e gestualità, la patina dorata, il fatto di non essere installata su un piedistallo ma poggiando direttamente sulle pietre della piazza”, dice Risaliti, “la collocano in una dimensione “altra”, creando un cortocircuito tra il tempo che scorre (Time Unfolding, titolo dell’opera), quello della vita e della società, e l’immobile eternità delle sculture rinascimentali”. Che Risaliti, dotato di sguardo lucido e coraggioso e di ottima credibilità internazionale, raramente sbagli, è vero: e infatti anche la scultura odierna ha una sua dignità, una sua forza, un suo senso (“Per la prima volta in 600 anni si erge qui la figura di una giovane donna nera del nostro tempo”, sottolinea Risaliti, strizzando l’occhio a quella che a destra viene liquidata come woke culture). E anche, in fondo, una sua armonia con la piazza rinascimentale. Ma per dire cosa? Per rappresentare i cortocircuiti del contemporaneo, forse; non certo per celebrare più alcun valore etico o alcun grande eroe.

A rappresentare grandi uomini, eroi civili e valori condivisi, oggi, non ci pensa più l’arte con la “A” maiuscola, ma (ha ragione Crespi) solo la street art. Eroi dei nostri tempi, impermanenti e mutevoli come sono impermanenti e mutevoli i valori in cui oggi ci riconosciamo, ma domani chissà, vengono rappresentati da “monumenti” altrettanto aleatori, dipinti sui muri e non più scolpiti nel bronzo come avveniva un tempo: murales, quasi sempre commissionati da amministrazioni, assessori, associazioni culturali che lavorano sul territorio, e senza alcun comitato a far loro le pulci, a celebrare di volta in volta magistrati antimafia, presidenti anti-apartheid, importanti scienziate, letterati, cantautori, eroi civili, martiri laici della democrazia e dei diritti. Retorica? Spesso, sì. Ma la formazione di una coscienza civile non passa spesso anche dalla retorica? L’arte con la “A” maiuscola, da par suo, in ottemperanza alla vulgata, ancora molto presente, dadaista e duchampiana, si limita invece per lo più a decostruire, a mettere in dubbio, a rovesciare punti di vista, a scherzare anche, a provocare, o a giocare con le nostre percezioni; a volte cerca, spesso senza riuscirci, di coinvolgere il pubblico in un rapporto relazionale.

Da City Life alla Mela di Pistoletto
Di comitati per l’arte, d’altra parte, son pieni i comuni, i ministeri, gli assessorati, ma quasi sempre le loro decisioni partoriscono topolini. A City Life, quartiere-simbolo della “fighetteria” milanese, della città dove crescono di pari passo le differenze sociali, le piste ciclabili (almeno quelle) e i nuovi quartieri “green” progettati da archistar ad uso esclusivo di multinazionali, vip, trapper e calciatori; ebbene, a City Life si è costruito un parco di sculture, questa volta non temporanee ma permanenti, creato con l’ausilio dei suoi bravi critici “certificati” e dal suo bravo comitato col suo bravo concorso, proprio come piace a Tonelli; e il risultato è, salvo qualche eccezione, un coacervo di opere modeste, che non incidono in nulla nella percezione dei frequentatori del parco, deboli formalmente e a tratti tanto goffe da far pensare a uno scherzo: due sgraziati arti, mani e piedi, giganti realizzati in mattoncini rossi, delle altrettanto sgraziate teste di animale fantastico a sostituire i classici rubinetti a forma di drago delle storiche fontanelle milanesi, due sassi informi a imitare un effusione… eppure, si tratta di artisti dal curriculum solido, voluti da curatori con pedrigree internazionale. Stesso dicasi, sempre a Milano, della francamente assai infelice Mela reintegrata (o mezzo mangiata) di Pistoletto davanti alla Stazione Centrale…

Tutti monumenti di artisti apparentemente indiscutibili dal punto di vista della carriera, scelti con tutti i crismi, e che per di più ci toccherà tenerci vita natural durante, proprio come i palazzi, i grattacieli, a volte i mostri architettonici di cui le città pullulano, spesso sganciati l’uno dall’altro, non pianificati, affastellati come le famose sculture di piazza della Signoria. “L’architettura è inesorabile, l’abbiam sempre con noi”, scriveva negli anni Trenta Marcello Piacentini. “Ogni volta che usciamo di casa, ci si parano innanzi i fantasmi di tutte le epoche, che reclamano il loro posto non nella storia ma nella vita”. Potremmo dire lo stesso di certa arte pubblica, quella non temporanea, che, malgrado i curatori e i comitati, ci toccherà sorbirci tutta la vita, e reclama anch’essa “il suo posto non nella storia ma nella vita”, accompagnandoci, ci piaccia o no, nel nostro vivere quotidiano.

Dalla street art all’arte pubblica effimera
Spesso, però, capita invece che l’arte pubblica di passaggio, non spinta da nessun comitato, nata per volontà di qualche imprenditore o di qualche artista particolarmente intraprendente, magari per una manifestazione temporanea o una festival, “spacchi” più delle opere di tanti artisti internazionali con la puzza sotto il naso. Un esempio? Il “monumento cancellato” realizzato, per soli tre giorni, dal duo di street artist Urban Solid a Busto Arsizio, in occasione dei “Fashion Days” locali. Il duo, che non ha padrini importanti nel mondo dell’arte, non ha curatori “laureati” né gallerie dietro le spalle con credibilità internazionale, ha di recente, e per pochi giorni, coperto il monumento a Enrico Dell’Acqua, pioniere bustocco dell’esportazione tessile italiana, con stoffe colorate. Il risultato? Un colpo di scena nel paesaggio cittadino, che richiama l’idea dell’impacchettamento alla Christo e Jean Claude, ma anche, come un cortocircuito forse involontario, le recenti “coperture” e “imbrattamenti” di monumenti, durante il dibattito seguito alla cosiddetta “cancel culture”, o i monumenti sovietici oggi ridipinti a colori vivaci in Bulgaria (con le maschere dei Supereroi come sfottò, o con i colori dell’Ucraina in funzione anti-putinana).

O come quando Ivan Tresoldi detto Ivan il poeta, instancabile e irriducibile artista-attivista autore di azioni, sia illegali che legali, sui muri delle città del mondo, l’8 marzo 2021 colorò con la vernice rosa l’unghia del celebre “dito” di Cattelan in piazza Affari a Milano, come segno di ribaltamento concettuale, di rottura di tabù estetici ed etici (in che misura cioè si può toccare l’opera di un altro artista?), di sensibilizzazione sulla condizione femminile. I monumenti, ci dicono queste operazioni, sono elementi vivi e mobili del paesaggio urbano, possono mutare, meticciarsi, cambiare volto, alle volte rovesciare persino il proprio messaggio. Diventare colorati e gioiosi, quando ieri erano grigi e monocordi, testimonianza di un’epoca ormai passata.

Tutto il paesaggio urbano, del resto, è un continuo sovrapporsi di stimoli visivi differenti, di imput contraddittori, di superfetazioni ripetute e successive. Un confuso e caotico sovrapporsi di segnali, forme, messaggi e colori i più disparati. Lasciamo allora che anche l’arte pubblica, all’interno di questo paesaggio, viva, si esprima ed emerga liberamente e felicemente (purché in maniera temporanea e reversibile), senza comitati né curatori certificati a regolarne inutilmente le sorti.
Brilliant overview! Surprising how monuments in public space are still so misunderstood. I would add, because I have been working on this topic as well, that the temporary monument is in itself a subject that needs to be better understood, and that I associate with spontaneous acts of memory, usually expressed through instant manifestations of collective grief or collective joy. It certainly comes out in graffiti and wall murals, but precisely there is so far no repository here in Italy that is dedicated to archiving these alternative projects.