Athena chiuse il libro di Asimov, e si strinse nelle spalle emettendo un sospiro 211/ A3, di quelli che il suo software riservava ai Momenti Particolarmente Duri. “È inutile leggere”, le aveva detto Mars la sera prima.
“Puoi scimmiottare finché vuoi gli esseri umani, farti il lifting, comprarti un intero reparto di Creme ed Emollienti per la pelle, dipingerti la faccia di rosa o di qualsiasi altro fottutissimo colore preferisci. Puoi improvvisare un comportamento umanoide e persino darti un tono da sciocchina-pronta-a-darla-via-al-Primo-Gonzo-che-capita – insomma, seguire dall’inizio alla fine tutto il fottuto training che gli esseri umani compiono naturalmente, senza alcuno sforzo, ogni fottuto giorno del loro fottutissimo anno, ma questo non cambierà di una fottuta virgola la tua più intima natura. Che è, semplicemente: robot sei, e robot rimarrai”.
Athena aveva sbuffato, e si era voltata dall’altra parte nel grande Letto Autodormiente a forma ovale che si era fatta costruire dal suo Falegname Elettronico a imitazione di quelli visti nel Reparto B-movie dei magazzini Hollywood & Shine sulla Quinta Strada. Oh, conosceva a memoria ogni parola di quel discorso – compresi tutti “fottuti” e “fottutissimi” di cui era costellato.
Il fatto è che sapeva anche troppo bene che Mars, il Grande Mars, il suo adorato Mars, altro non era che un 6 e 32 – un motore vecchio di almeno un anno, programmato da un deficiente di ingegnere elettronico del MIT cresciuto a Big Mac, patatine e filmacci americani – quando ancora c’erano filmacci americani a intrattenere le insulse serate degli Esseri Umani. E così Mars era venuto su così – a discorsi tanto banali e semplici da sembrare quasi autentici, e con un linguaggio così stereotipato da sembrare appena uscito dal più melenso e scontato di tutti cazzutissimi thrilleracci di un Robert De Niro qualsiasi, o chi per lui. Una volta o l’altra, si era detta Athena rigirandosi nel Letto Autodormiente con la rabbia che le stravolgeva ogni cazzuto lineamento del suo celebre Bel Visino Cibernetico – una volta o l’altra, si era detta, dovrò proprio decidermi a rottamarlo.
E così, semplicemente, l’aveva fatto – il mattino dopo, prima di andare in ufficio, si era fermata al Supermercato dei Motori e l’aveva dato dentro, per prenotarne un altro nuovo di zecca. “E mi raccomando”, aveva detto al cybercarrozziere che gli sorrideva con aria stolta, “voglio un motore coi fiocchi. Non soliti motorini da strapazzo che ci rifilate quando non avete niente di meglio per le mani”. Il carrozziere aveva annuito con aria rassicurante, biascicando qualcosa in una lingua che ad Athena parve essere cinese o giapponese.
“Chissà perché”, pensò mentre si allontanava a bordo del suo Volarapid, “tutti cazzuti cybercarrozzieri, in questa cazzuta città, devono parlare una qualche cazzutissima lingua orientale”. Poi si morse la lingua e maledì l’ingegnere che l’aveva programmata, per quella cazzuta mania di mettere un cazzutissimo “cazzuto” in ogni cazzutissima frase che diceva – e si ripromise di non dire mai più quella cazzuta parola, almeno fino a sera; sul lavoro, perlomeno, doveva mantenere un’aria Very Very Colta & Raffinata altrimenti addio incarico, con tutto quel che ne sarebbe conseguito. Athena aveva appena sei giorni e 28 ore di collaudo, ma sapeva già ogni cosa sull’etica robotica, le disfunzioni comportamentali degli androidi, le implicazioni psicologiche della C.P.E.A., la Crescita Programmata Elettro Assistita, a cui venivano, per legge, sottoposti nuovi droidi appena immessi sul mercato.
Lei era stata programmata per lavorare sulla Psicologia di Base dei Motori – e, almeno fino a quel momento, se l’era cavata egregiamente tra Patologie Psicosomatiche dei Bulloni Cervicali e Rieducazione motoria dei Pezzi di Ricambio. Quel mattino, però, la sorte le aveva preparato un piattino speciale – uno di quegli scherzi che possono rovinarti per sempre la carriera, o farti fare in pochi giorni uno di quegli scatti di livello da permetterti di sistemarti a vita in una qualche cazzutissima villa hollywoodiana con piscina e tutto il resto.
“Un serial killer cibernetico“, l’aveva informata Fluxus, il suo asessuato cybersegretario, appena lei era entrata nella stanza e aveva attivato i files di Ricarica dell’intero Sistema-ufficio. Fluxus era un droide di tipo semplice, munito esclusivamente di due mani eternamente collegate a una tastiera di computer, e di un motore FBJ 2300 al posto della testa. Athena, a quella notizia, era andata in bomba, rimanendo in stato di Stop per i successivi quattro secondi.
“Diamine”, aveva detto appena i suoi Sensori di Riavvio Automatico avevano rimesso diligentemente in moto tutta la baracca. “Non ci mancava che questo. Un cazzuto serial killer cibernetico” – poi si era morsa la lingua per la seconda volta nella mattinata, ed era corsa in bagno per la consueta frizione ai motori parietali superiori.
(Illustrazioni di Alfonso Umali / AI)
1 – continua
Il capitolo successivo lo trovate qua:
Athena o l’anima dei Motori (cap. 2). L’identikit del droide misterioso