Se cercate colui che ha meglio usato le immagini per stigmatizzare cadenza e decadenza in Russia e Ucraina, questi è di fatto Boris Mikhailov (1938, Kharkov): sessant’anni di carriera in cui la fotografia si è confermata strumento di decostruzione politica e ricostruzione iconografica dei fatti sociali. Un’eterogenea e detonante visione dei propri mondi secondo cicli tematici chiusi, come se ogni invenzione fosse il racconto metafisico dietro la fisica del singolo reportage.
La mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma (Boris Mikhailov: Ukrainian Diary, aperta fino al 28 gennaio 2024) conferma, in realtà, il superamento dello stesso reportage con una sedimentazione pittorica che trasforma, deforma e riforma l’origine analogica della foto. Pensiamo alle diapositive anni Sessanta di “Yesterday’s Sandwich” con cui Mikhailov fondeva scatti di varia natura, incrociando dissolvenze che sovreccitavano il naturalismo e riportavano l’utopia visuale nel solco di Platonov, Bulgakov e Gogol’.
Il ciclo “Luriki (Colored Soviet Portraits, 1971-1985)”, dove l’autore colorava foto in bianconero di normale vita sovietica, aumentava il pathos onirico degli esordi. I colori pastello trasformavano la granitica ossessione comunista in un gioco di mascheramenti e travisamenti, delegittimando le psicosi dittatoriali, abbassando la temperatura del controllo sociale, dissacrando quel sentore burocratico degli immaginari da regime moscovita.
In altri cicli ha trasfigurato il dramma sociale con atmosfere di verde boschivo o blu acquatico, giocando con spostamenti estetici che invertivano l’ordine politico delle cose. Potentissimo fu, nel 1992, il ciclo “I am not I” dove Mikhailov usava la propria nudità per demolire il machismo eroico dello stalinismo, ponendosi come frivolo antieroe liquido, femmineo, a metà tra un giovane modello di Von Gloeden e un ironico circense feticista.
Il momento di massima spinta dissacratoria arrivò nel 1997 con “Case History”, una serie con cui ha ritratto disperazione, malattia e pazzia tra decine di relitti umani nella città ucraina di Kharkov. Venticinque anni fa potevamo leggere il futuro in questi scatti dolorosi e sanguinanti, dove ogni corpo sottolineava il decesso della speranza e della parola “domani”.
Tutte le immagini dell’insensata guerra odierna si trovano nel cuore asfissiante di questi ritratti violenti, durissimi da digerire, impossibili da dimenticare. Il paradosso? Che il futuro del mondo era dentro la mancanza di futuro di questi ritratti respingenti e definitivi.
Il percorso di Boris Mikhailov ha tracciato un lungo romanzo visuale che ha scarnificato fino all’osso i caratteri, le debolezze, i rituali, le follie ma anche le esigue speranze di popoli che conoscono da sempre la paura, la perdita, la povertà, il freddo e, troppo spesso, la mancanza di libertà. Russia e Ucraina non si riducono a ciò, ovviamente, ma serviva al mondo un conradiano avventuriero del fiume metaforico, un occhio pubblico che cercasse gli occhi del Colonnello Kurtz lungo la propria apocalisse sovietica.
L’ucraino Mikhailov si è sacrificato per la causa etica di una fotografia militante, scomodissima, densa di veleni e antidoti; ha scelto il dialogo bergmaniano con la morte, ritrovandola negli occhi di molte persone incontrate ovunque, provando a sfidarla con gli abiti luminosi del colore e della bellezza iconografica. Se tutti noi guardassimo meglio le veggenze contenute in alcune opere d’arte, avremmo risposte alle domande su come evitare una guerra.
O, semplicemente, su come reimparare assieme le regole dell’amore.