Campiello, ha vinto la Manzon con la copertina di Andrea Serio. Ci siamo sbagliati, e vi spieghiamo perché

Lo ammettiamo, abbiamo sbagliato. Facciamo mea culpa. I giurati del Premio Campiello, che hanno appena premiato il libro di Federica Manzon, Alma (Feltrinelli), hanno smentito i nostri voti. Alla sua copertina, realizzata dal pur bravo illustratore Andrea Serio (disegnatore apprezzatissimo, dal tocco magico e favolistico, autore di graphic novel e insegnante alla Scuola del fumetto nonché allievo del grande Lorenzo Mattotti), nel nostro articolo di “critica dei libri dalla copertina” (Premio Campiello, i libri dei 5 finalisti visti dalle copertine. Qual è il migliore?) avevamo assegnato uno striminzito 7 -. Per inciso, uno di quei voti che danno il nervoso solo a vederli: 7 -? Ma dai!, mettigli un bel 7, oppure un 6 e ½, e non se ne parli più! Invece no, noi avevamo assegnato un 7- perché l’autore appunto merita, e perché dopotutto la copertina ha una sua indiscutibile grazia e leggerezza, ma, scrivevamo, “manca di verve e di personalità. Peccato, perché dall’autore, ci saremmo senz’altro aspettati di più”.

Chi è l’autore della copertina

Andrea Serio, del resto, è indiscutibilmente un maestro, e se l’illustrazione della copertina della Manzon non ci è parsa del tutto all’altezza di altri suoi lavori, certo è la cifra stilistica che contraddistingue le sue illustrazioni è sempre quella della leggerezza, della poesia, di atmosfere fantastiche calate nel quotidiano. Le ambientazioni sono quasi sempre naturali (“Ci sono diversi soggetti ricorrenti nelle mie illustrazioni”, dice l’artista, “ma quello che amo di più è la Natura… qualche macchia verde, giardini, siepi, alberi vari, sentieri di campagna, piccoli edifici, scale, muri soleggiati, scorci di natura selvaggia, litorali, spiagge…”), e i suoi personaggi paiono sempre dei sonnambuli in un mondo che sembra non appartere loro.

Un mondo sognante, misterioso, malinconico, latamente metafisico: come nella splendida cover del volume Macondo #3!, il cui tema era riassumibile nella parola lituana Nepakartojama (la cui traduzione è “un momento o una situazione perfetta che probabilmente non accadrà mai più”), dove si vede una donna che, con aria sognante, è salita sul tetto di una macchina per cercare l’orizzonte, oltre i muri di vecchie fabbriche o caserme, in un desolato paesaggio urbano scandito solo da pali di lampioni.

Ci sono sempre punti di vista inaspettati, “altri”, nelle sue illustrazioni: come in alcune di quelle disegnate per grandi classici della letteratura. Come quella di Arcipelago Gulag, con un Solzhenitsyn solitario e malinconico, perso nel nulla di quell’ “altrove” che è stato il gulag siberiano; o Il libro della giungla di Kipling, con Mowgli accolto come “figliol prodigo” dalla presunta madre, Messua, sotto un cielo di foglie di palma, anziché ripreso nella giungla con i suoi amici animali come sarebbe stato più prevedibile.

O tutte le copertine dei romanzi di Piero Chiara, con il loro carico di mesta poesia della provincia d’altri tempi. E che dire poi di quel Partigiano Johnny che solca le montagne col suo fucile in spalla, come un antico e solitario eroe di un mondo senza tempo ?

Dallo Strega al Campiello, le migliori copertine

Nel nostro primo esperimento di “critica dei libri attraverso le copertine”, realizzato con i romanzi finalisti del Premio Strega (Premio Strega, nella sestina dei vincitori le copertine più belle. Vi spieghiamo il perché), una delle copertine che avevamo apprezzato maggiormente era stata proprio quella del romanzo vincitore, L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, su cui campeggiava un’immagine della fotografa urcaina Diana Lyovkina, molto coerente rispetto alle atmosfere inquiete e ai ritmi adolescenziali del romanzo. E non solo: anche le altre 5 copertine arrivate in finale erano quelle a cui noi avevamo assegnato i voti più alti. Una singolare coincidenza tra i nostri voti alle copertine e le scelte dei giurati.

Nel caso del Campiello, invece, no: noi, bisogna dirlo, tifavamo non per la copertina della Manzon, ma per quella del romanzo di Emanuele Trevi, col suo libro La casa del mago (Ponte alle Grazie), con la bella grafica pulita e il disegno, criptico ma così raffinato, del padre dell’autore, Mario Trevi: gli avevamo assegnato addirittura 9 e ½. E al secondo posto, col 9, avevamo messo la bella e potente copertina del libro di Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio), con uno scatto del fotografo americano Charles H. Traub, ambientato a Napoli negli anni Ottanta. Meno riuscita ritenevamo la copertina del romanzo di Vanni Santoni, Dilaga ovunque, Laterza (voto: 5), coi suoi graffiti dipinti su un muro di Parknajol, alla periferia di Kathmandu, in Nepal, perché “facilmente fraintendibile” (sarebbe andata bene come immagine di copertina di un romanzo satirico, decisamente meno per quella di un romanzo-saggio sul fenomeno del graffitismo illegale com’è quello di Santoni). A metà strada, con un 8, avevamo infine piazzato la copertina del libro di Michele Mari, Locus desperatus (Einaudi), con un’immagine, elegantemente einaudiana benché anch’essa un po’ criptica, del fotografo Francesco Pernigo, col quale Mari coltiva da tempo un rapporto di collaborazione nell’immortalare gli oggetti appartenenti alla sua collezione, vagamente ossessiva-compulsiva, di “feticci” casalinghi. Ma, ora che l’autrice (non della copertina, ma del romanzo) ha vinto il Campiello, saliremo, come si confà, sul carro del vincitore, dicendo a gran voce: ci eravamo sbagliati.

Del perchè ci siamo sbagliati

Lo ammettiamo (dopotutto, come diceva Longanesi, solo i cretini non cambiano mai idea): la copertina di Andrea Serio, dopotutto, funziona. Semplice, immediata, ariosa: una copertina che dice e non dice, che allude a una storia di cui, è vero, riusciamo a intuire poco o niente (“Criptica quanto il titolo del romanzo”, la definivamo), ma in qualche modo è forse in grado di risvegliare in noi qualche vecchio ricordo, qualche storia d’amore lontana, qualche ragazza o ragazzo che abbiamo incontrato in gioventù, in una stradina di chissà che città sconosciuta. Insomma, una buona copertina per un romanzo senza troppe pretese, magari un bel feuilletton o un romanzetto d’amore, meglio se malinconico e giocato sul filo della memoria.

Quello della Manzon è un feuilletton, o un romanzetto d’amore? Non lo sappiamo (noi non leggiamo mai i romanzi di cui recensiamo le copertine, è contro la nostra etica: e anche i giurati dei premi, dopotutto, si sa, a volte si fermano, come noi, alla copertina: Sangiuliano docet). Ma in fondo, questa copertina funziona forse più, dobbiamo ammetterlo, di quella del romanzo di Emanuele Trevi, la cui immagine è molto elegante e raffinata, ma a guardar bene poco “popolare” e dopotutto anche poco comprensibile; e anche di quella del romanzo di Franchini, con la foto “dura” e molto diretta di Charles H. Traub. Dunque, facciamo ammenda: viva le copertine “semplici” e popolari, come quella di Andrea Serio per la Manzon, che alludono senza dire, risvegliando in noi ricordi o memorie con leggerezza e un tocco di malinconia.

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