Il senso dell’antologica per la sintesi teatrale
Potrei riassumere così la grande mostra che Roma dedica ad una delle sue migliori anime artistiche, una regina di quadri che ha contribuito ad evolvere il segno cifrato in un’epoca – il Dopoguerra della catarsi informale – che tracciava ponti drammaturgici tra astratti e figurativi. La retrospettiva di Carla Accardi, aperta al Palazzo delle Esposizioni fino al 9 giugno, si presenta con un allestimento armonico nella sua asciuttezza bianca, pura sintesi antieroica che lascia ai quadri il palcoscenico del movimento cromatico, il tutto lungo una rigorosa divisione per decenni, raccontati dai curatori (Daniela Lancioni e Paola Bonani) per logica apicale e mai per accumulo archivistico.
L’artista sicliana ha tracciato le vite vive dei suoi segni performanti, sorta di organismi a bassa motilità che, a distanza di decenni, galleggiano salubri nelle superfici monocrome di una pittura dagli aloni geologici. Percepisco un senso fossile del suo spazio grafologico, popolato da alfabeti preistorici che intuiscono mentre evocano, confermando il valore demiurgico di chi (re)inventa mondi a propria immaginazione (e senza verosimiglianza).
Pittura Geologica
Fateci caso mentre scorrete le opere dagli anni Cinquanta ai Novanta: quei segni cifrati somigliano ad una famiglia allargata di organismi instabili, esseri corazzati dagli scheletri diseguali, meticci prieistorici con richiami ad anfibi e pesci ma anche a rettili e testuggini. Una popolazione geologica che, partendo da uno status fossile, ha ripreso vita col tocco semplice e meraviglioso della Accardi, come se il quadro fosse un acquario geografico dove gli elementi si fondono e scontrano, si abbracciano e baciano, si guardano ed evitano… è la vita al suo status elementare e universale, una bellissima lezione di antiepica morale per comprendere la pittura come oasi interiore, per astrarsi dalla prosa tossica del quotidiano, per accendere la cosmogonia dei suoi organismi filiali.
La pittura non salva nessuno in senso clinico, tantomeno ferma guerre con la sua estetica di simboli rituali. Ribadirlo nel trionfo semantico di una tavolozza dai vinilici fluorescenti, significa comprendere la militanza spirituale del lavoro, la sua geologia di metafore dai colori accesi e curativi. Le stesse tende coi fogli di sicofoil dai segni rosa sono la vittoria del rifugio per l’anima, una geografia chiusa che protegge lo sguardo dai neri sociali, dai rumori stridenti delle umane tragedie.
Gli embrioni dei suoi segni crescono nei fondali neri dei primi anni Cinquanta, quando l’orizzonte ancora odorava di violenza e la reazione autoriale si definiva tramite grovigli compressi. La scrittura bianca si presentava come uragano grafologico dal magnetismo centripeto, un vortice energetico che ascoltava gli andamenti estetici del momento per farne la propria versione poetica, il proprio alfabeto cosmico e rigenerante. Quei singoli codici si sono gradualmente fossilizzati, crescendo di formato e definizione, assumendo una conformazione sempre più volumetrica, fondendo i segni con abiti dai colori sempre più piatti e decisi, giocando con il grezzo della tela, creando contrasti ottici tra pieni e vuoti…
Il percorso si chiude nella parete che, in un certo senso, completa il cerchio semantico di Carla Accardi. Spiccano, come astronavi in un cielo bianco, le otto forme su tela grezza, otto segni cifrati che ci danno lo spettro cromatico del suo universo, la sintesi aerea di nuvole fossili che ricompongono, idealmente, una lunga e splendida carriera.
Le sue qualità umane e intellettuali, la forza nel difendere ruolo e carriera in un mondo maschilista, la coerenza nel rimanere lucida davanti al mercato bulimico, la bravura nel perdurare dentro il proprio codice semantico senza mai “fotocopiarsi”: doti che hanno supportato le singole scelte, definito gli spostamenti del segno, legato le fasi tematiche, dandoci il senso di un’antologica che cementifica quel segno nell’ordine definitivo della Storia.