Protagonista alla Galleria Vik Milano fino al 14 aprile con la personale Private woman – mostra organizzata in occasione del Women’s international film festival – Carla Mura continua per noi il suo lungo racconto attraverso il filo. I fili di cotone colorati, sovrapposti in tessiture, in reticolati che alludono a mondi, paesaggi, storie, città, emozioni, oggi, per la nuova serie delle Pussy in mostra a Milano, si compattano in fondi quasi monocromi, facendo sbocciare, al centro, un tenero sesso femminile.
Ho sempre trovato il tuo lavoro molto interessante per quel suo porsi in bilico non solo tra astrazione e figurazione, ma anche, per certi versi, tra le regole della pittura e quelle del bassorilievo. E’ come se tu avessi dato una nuova voce all’uso del filo. Come sei arrivata a scegliere questo mezzo espressivo?
Di fatto è cosi: astrazione e figurazione, ma anche bassorilievo e tridimensione. Il filo è stato il secondo capitolo della mia espressione artistica, un colpo di fulmine a Roma, quando ancora non ci vivevo, in un mercato d’antiquariato sotto Ponte Milvio. Fu lì che comprai una rocca di filo da 500 grammi e ne fui entusiasta: mi diede la sensazione di poter fare tantissimo e questa sua leggerezza, quasi impalpabilità, mi fece e mi fa pensare a qualcosa di eterno, che non finisce mai. Di contro c’è la concretezza del materiale, la forza. È un mio alter ego. Esistono infinite possibilità, alcune non sono state ancora usate e approfondite; in questo mio ultimo lavoro ne ho portata alla luce una nuova, ed è tutto molto affascinante.
Che cosa ti dà, il filo, in più rispetto a quello che ti potrebbe dare la pittura?
La pittura l’ho usata per anni: è stato il mio inizio. Ma l’ho usata in maniera molto materica, contaminandola con sabbia, spezie, alabastro, foglie, fogli di giornale, materiali plastici, legni. Il gesto era pieno di pathos, era il bisogno di sentirmi totalmente liberata da una condizione un po’ opprimente vissuta nella mia infanzia. A meno che non sappia dare una visione nuova del già visto, nuove scene, nuove prospettive relazionali, nuove architetture, credo che oramai la pittura appartenga ad altre epoche. Il filo invece è un moto a luogo, è un andare avanti senza porsi limiti, è un camminare nella stessa strada per ore, fermandosi o proseguendo il cammino, è espressione tattile continua, è pazienza ma anche dinamismo, è costanza e riflessione.
Oggi è in grande auge la fiber art. Pur muovendoti tu in maniera assolutamente autonoma e originale rispetto a quello che si intende generalmente con questa definizione, ti senti di farne parte o pensi che il tuo lavoro sia qualcosa di completamente diverso?
Non amo questo termine, non mi sono mai definita un’artista della fiber art. Il mio lavoro è diverso. Non voglio la pesantezza: voglio la leggerezza e la delicatezza. Il filo mi interessa come quantità ma anche come visione; come materia ma anche come effetto, come spiegazione, come relazione, come una sorta di incarnazione dell’umanità vissuta e da vivere. Mi piace “fotografare” dei momenti, con il filo, o dei frames di viaggi vissuti o immaginari, delle idee di progresso, delle intuizioni di futuro come nelle mie serie Modelli Meteorologici e Metropoli. La fiber art è interessante quando parla di grumi, di matasse, di esasperazioni, ma a volte la trovo obsoleta, ridondante, per niente raffinata. È una linea labile ma fondamentale stilisticamente.
Parlare di filo, in arte, fa immediatamente venire in mente soprattutto artiste donne, da Joana Vasconcelos a Cecilia Vicuña, fino alle nostre Loredana Galante e Florencia Martinez, ma per anni il filo e il ricamo sono stati considerati, in arte, con una sorta di sufficienza, come se il fatto di utilizzare materiali cosiddetti quotidiani – e soprattutto femminili – sminuisse il valore del lavoro. Tu pensi che la fiber art sia ancora giudicata secondo questi criteri? O operazioni come le Biennali di Christine Macel e di Cecilia Alemani hanno contribuito a modificare questa lettura?
Per quanto riguarda Joana Vasconcelos, le sue radici sono rappresentative del suo lavoro. Nel mio caso non è cosi: ho una visione più globale che radicata, mi interesso dell’umano nel senso largo del termine; e poi gli elementi che possono entrare nella tela in aggiunta al filo mi disturbano. Cecilia Vicuña ha un lavoro che è più vicino al mio pensiero. Per quanto riguarda lo sminuire del lavoro con il filo o il leggerlo nell’ottica della disparità di genere, non ha senso: basta pensare ad Alighiero Boetti. Oggi parliamo di inclusività ma non ne vedo ancora risultati. Ogni Biennale però aggiunge dei tasselli importanti e serve sia agli adulti che alle nuove generazioni per abituarsi a un mondo con tanti “colori diversi e tutte le sfumature”.
A proposito di donne, e questa volta non solo nell’arte, arriviamo alla mostra personale che ti vede protagonista oggi a Milano, alla Galleria Vik: Private Woman. Lì porti la nuova serie delle Pussy: ricami dalle forme a mandorla che si ispirano inequivocabilmente al sesso femminile. Come nasce questa serie e che cosa ci vuole raccontare?
Voglio puntualizzare che io non ricamo, non ho mai ricamato, non ho mai usato l’ago nei miei lavori, non è una tecnica che mi si addice: uso il filo come se fosse un pennello. Le mie Pussy fanno parte di un iniziale progetto sui problemi del mondo, tra cui anche quello delle violenze sulle donne: dalle mutilazioni genitali femminili alle discriminazioni di genere. Ho voluto però questa volta entrare nel privato della donna anche per dare alla parte profondamente intima un’attenzione più decisa. L’ho posta così in primo piano, con una mia nuova tecnica di lavorazione: piccoli strati di filo attorcigliati in una sorta di piccolo fiocco con un nodo al centro che disegnano i dettagli dell’organo genitale, perché ogni sua parte ha bisogno di attenzione, ogni sua parte può determinare desiderio ma anche sofferenza. Una richiesta di delicatezza nei confronti della donna. Le ho realizzate in diversi colori, perché ogni vagina è diversa dall’altra, come ogni donna è diversa dall’altra. Voglio sottolineare le diverse culture, le diverse etnie, la diversità fisica e quindi psicologica. Voglio ritrovare nella diversità una comunanza di intenti, un essere simili, un’inclusione che genera rispetto.
Al di là di una scelta cromatica molto precisa – femminile, certamente, ma anche molto calda, latina, direi – mi pare di notare una differenza nell’uso del filo: più compatto e quasi monocromo per lo sfondo rispetto alle sovrapposizioni in cui si leggevano planimetrie e indizi di figurazione. Questa serie segna dunque una svolta nel tuo lavoro? Qualche cambiamento stilistico?
Ho utilizzato questa volta una nuova tecnica, è una svolta che mi permette di entrare nel dettaglio della mia figurazione. Ma il mio cambiamento stilistico lo capirò meglio nel prosieguo. Per realizzare dei nuovi progetti si ha bisogno di mesi e alla fine di questi mesi, quando ho fatto almeno 10/12 lavori nuovi, posso segnare un’altra tappa, un altro tassello a quello che ho realizzato sinora. Noi cambiamo nel tempo, la nostra arte cambia con noi, pur mantenendo delle radici. Ho voglia di dedicare una serie anche alla sfera fisica e psichica maschile, e lo farò: sono sempre stata affascinata dallo studio della mente, i suoi processi emotivi, affettivi, cognitivi e comportamentali.
C’è un sottile intento di denuncia, in questi tuoi lavori, anche se manifestato con garbo e sempre dando spazio soprattutto all’arte. Tu credi che le artiste si debbano in qualche modo schierare in questo momento di dibattito sulle discriminazioni di genere e sulla violenza contro le donne?
È anche un grido d’allarme il mio, una denuncia, sì. Ho una profonda sensibilità per tutto quello che concerne la sfera intima, sentimentale, fisica e psichica legata a questi argomenti. Credo che le artiste si debbano schierare su temi importanti per far meglio comprendere, per dare una visione altra, estremamente sensibile. La discriminazione di genere non si supererà a breve, ci vorrà ancora del tempo, la strada che stiamo percorrendo è buona, ma bisogna fare di più.
Bella intervista. Domande intelligenti e risposte di conseguenza. Complimenti alle due protagoniste.