Sono molti i gialli tutt’ora irrisolti o non chiariti nella storia dell’arte. Uno di questi riguarda la morte di Giovanni Battista di Jacopo di Guasparre, da tutti conosciuto come il Rosso Fiorentino. Dice infatti il Vasari, che il Rosso morì suicida: per raccontarne il motivo, bisogna però fare un passo indietro. Siamo nel 1530. Giovanbattista di Jacopo, detto appunto “Rosso Fiorentino”, si trova a Parigi, alla corte di Francesco I di Valois, sovrano illuminato e ambizioso, che, a imitazione di Federico II Gonzaga, voleva circondarsi di artisti e letterati per rendere la sua corte inimitabile ed eterna. A raccomandarlo presso Re Francesco, dice il Vasari, fu Pietro l’Aretino: conosciutolo a Venezia, ed essendosi da lui fatto fare un disegno (probabilmente con la precisa intenzione di farlo avere al Re di Francia, poiché da tempo, ci dice sempre il Vasari, al pittore “era venuto capriccio volere finire la sua vita in Francia e levarsi da questa miseria e povertà”), l’Aretino lo inviò al sovrano. Da lì, l’invito del Re a venire a Parigi, dove il pittore fu ricevuto con tutti gli onori, messo a lavorare per la corona e in breve tempo nominato canonico di Notre Dame e della Sainte Chapelle, entrando nelle grazie del Re e di tutta la corte: “Dotato di bellissima presenza”, lo descrive il Vasari, “il modo di parlare suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico; ed aveva ottimi termini di filosofia”.
Dai primi mesi del 1532, Rosso aveva già cominciato a lavorare ai progetti della Galleria Francesco I della Reggia di Fontainebleau, che il Re voleva splendente, esclusiva, raffinatissima, e ricca di pitture di stucchi e di decori come nessun’altra mai. I pagamenti dei lavori nella Reggia lo confermano in piena attività a Fontainebleau dal luglio 1533 fino al 1539. Nel 1536 è indicato come direttore di tutti i lavori della Reggia.
Rosso ottenne in pochi anni così tante commissioni e così tanto potere sui lavori da eseguire nella Reggia, che “si trovava poco avanti la sua morte avere più di mille scudi d’entrata, senza le provisioni dell’opera, che erano grossissime”, scrive sempre il Vasari, “di maniera che non più da pittore, ma da principe vivendo, teneva servitori assai, cavalcature, et aveva la casa fornita di tapezzerie e d’argenti, et altri fornimenti e masserizie di valore”. Il frate redentorista Pierre Dan, detto “padre Dan”, nel suo libro Le trésor des Merveilles de la Maison Royale de Fontainebleau, del 1642, lo descrive come uomo coltissimo, “non solo dotto e intelligente nell’arte pittorica, ma altresì versato nelle scienze umane”. È ancora il Vasari a istruirci sul fatto che il Rosso, prima di partire per Parigi, “per meglio comparire fra que’ barbari”, si fece anche un’infarinatura di latino.
Ora, cosa accadde all’improvviso a questo pittore valentissimo, colto, scaltro, intelligente, ricco, raffinato, capace di farsi amare ed apprezzare da tutti in una corte così splendida e potente? Accadde, dice sempre il Vasari, che “la fortuna, che non lascia mai o rarissime volte lungo tempo in alto grado chi troppo si fida di lei, lo fece nel più strano modo del mondo capitar male”. Insomma, cadde in disgrazia, e la caduta, come vedremo a breve, fu rovinosa.
Un incidente di percorso
Eccoci dunque a quell’“incidente” che lo portò, secondo il Vasari, al suicidio. Sembra dunque che un giorno d’autunno del 1540, quest’uomo, ricco, potente e affermato, scoprisse tra i suoi conti un ammanco di cassa: “gli furono rubate”, scrive il Vasari, “alcune centinaia di ducati” (l’equivalente, oggi, di qualche migliaia di euro: non proprio una quisquilia, dunque, ma nemmeno una cifra gigantesca per chi già da tempo “viveva come un principe”).
Sospettato del furto (è sempre il Vasari a dirlo), è un collaboratore del pittore, tale Francesco di Pellegrino, anch’esso fiorentino, il quale “della pittura si dilettava et al Rosso era amicissimo”, nonché “praticando con esso lui, come dimestico e familiare”. Pittore, dunque, come il Rosso, ma di minor fama e di minor talento, il sospetto ladro è un suo fidato collaboratore, fiorentino come lui, esperto in lavori di decorazione e stuccatura, per questo motivo chiamato dal Rosso ad aiutarlo per l’abbellimento della Reggia. Questo Francesco di Pellegrino, bisogna dire, rimase infatti celebre non tanto per i quadri che realizzò, ma per un curioso e prezioso libriccino, intitolato Livre de Moresques, considerato il primo volume in Europa dedicato alle decorazioni e ai disegni esotici, soprattutto arabi e musulmani, “alla moresca”, già in parte noti attraverso l’importazione di tessuti ed oggetti dal Vicino Oriente. È lui, dunque – l’autore del Livre de Moresques –, il “sospetto numero 1” del furto, a giudizio del Rosso Fiorentino, che, “non sospettando d’altri che di detto Francesco, lo fece pigliare dalla corte, e con esamine rigorose tormentarlo molto. Ma colui, che si trovava innocente, non confessando altro che il vero, fu finalmente relassato”.
Inizia il giallo
Qua inizia dunque il “giallo”: lasciato andare perché innocente, Francesco Di Pellegrino, “mosso da giusto sdegno”, avrebbe cominciato a “risentirsi contra il Rosso del vituperoso carico che da lui gli era stato falsamente apposto” (detto in parole povere, s’incazzò come una belva per le accuse infondate che gli erano state rivolte), rivoltandosi contro l’ex amico e maestro che lo aveva ingiustamente accusato, arrivando a pubblicare un “libello d’ingiuria” contro di lui. Un “J’accuse”, potremmo dire oggi, pamphlet così circostanziato e ben scritto, “che il Rosso, non se ne potendo aiutare, né difendere, si vide a mal partito, parendogli non solo avere falsamente vituperato l’amico, ma ancora machiato il proprio onore”. Nel pamphlet, infatti (che purtroppo non è arrivato fino a noi), Francesco Di Pellegrino accusava apertamente il Rosso di “tenere vituperosi modi”, descrivendolo anche come “uomo disleale e cattivo”. Questo, sempre stando al Vasari, avrebbe portato il Rosso, il 14 novembre del 1540, a darsi la morte, con un veleno fatto portare segretamente da Parigi da un non precisato “contadino”.
Fin qua, dunque, il Vasari. Eppure qualcosa, in tutta questa storia, sembra non tornare: il Rosso che “vive come un principe”, la vita nella Reggia descritta come idilliaca, l’improvviso ammanco di cassa, il sospetto su un pittore innocente, la sua risposta così dura e circostanziata che avrebbe portato il Rosso, pentito, a darsi la morte… darsi la morte per un libello d’improperi? Era forse, quello della corte di Fontainebleu, un ambiente così idilliaco, onesto, privo di sospetti e di veleni, da portare addirittura al suicidio il pittore più potente, più ricco, più amato dal Re, colto, raffinato e di buone maniere ma anche assai noto per il suo carattere bizzoso, intemperante e a volte prepotente (eccoli, i “vituperosi modi”)? E tutto questo per cosa – per la “vergogna” di avere accusato ingiustamente un suo collaboratore? Siamo davvero sicuri che sia andata così, e che non ci sia invece stato sotto qualcosa di più, e di molto, molto più complesso ed indicibile?
Cui prodest?
Per risolvere i gialli, gli investigatori ricorrono spesso a una vecchia formula, domandandosi: “cui prodest?” – a chi giova? E qualcuno a cui la morte del Rosso giovò, in effetti, c’è. Si chiama, costui, Francesco Primaticcio, è nato nel 1504 a Bologna (e per tal motivo è conosciuto tra i suoi contemporanei anche come “il Bologna”), ed era arrivato a Fontainebleu solo due anni dopo il Rosso, nel 1532. Anche lui scovato da Re Francesco in Italia, il Primaticcio era aiutante di Giulio Romano, a Mantova. Qui, infatti, venne un giorno il Re di Francia, “e vedute le magnifiche opere del Palazzo del Te”, scrive il marchese Antonio Bolognini Amorini nella sua Vita del celebre pittore Francesco Primaticcio, pubblicato a Bologna nel 1838, “ed invaghitosi di quella nuova leggiadra maniera di adornare le sale, e le stanze, praticata da Giulio, e da’ suoi discepoli, fu preso da vivissimo desiderio di averne delle uguali per abbellirne l’immenso suo Palazzo di Fontainebleu, e però interessava il duca di Mantova Federico a mandargli subito alcuno de’ migliori allievi di Giulio, onde far vedere alla Francia la nuova elegante invenzione”.
Fra gli allievi di Giulio Romano, “distinguevasi fra essi” appunto il Primaticcio, “perché, oltre l’essere de’ più anziani e valoroso nel disegno, nel colorito, e ne’ lavori di plastica, superava i compagni per certa nobiltà al tratto, ed urbanità di maniere che in una Corte di tanto Re gli potevano riuscire di grande vantaggio”.
Eccoci dunque al 1532, e all’arrivo del Primaticcio a Fontainebleu, dove già giganteggiava, e la faceva da padrone, il Rosso: il quale non gradì affatto, a quanto pare, l’arrivo di questo nuovo pittore venuto da Mantova a contendergli il primato. Si mise infatti, il Primaticcio, a darsi da fare per “far conoscere il sommo suo talento a tanti Pittori che ivi erano, massimo Toscani, fra i quali Rosso del Rosso, Pittor Fiorentino, nelle composizioni molto pratico, e fondato nel disegno, il quale da oltre un anno era in Parigi, e già questi non senza invidia tenevagli gli occhi sopra desiosi, attendendo il momento di vedere quanto egli nella professione valesse”.
Iniziano dunque quasi da subito l’invidia e la rivalità tra i due, della quale il Vasari, che rimane sempre un po’ sul vago, soprattutto quando gli fa comodo, aveva taciuto. Ci dice infatti il Vasari solamente che, al momento dell’arrivo del Primaticcio, essendo già “al servigio del medesimo Re il Rosso pittore fiorentino, e vi avesse lavorato molte cose e particolarmente quadri del Bacco e Venere, di Psiche e Cupido, nondimeno i primi stucchi che si facessero in Francia et i primi lavori a fresco di qualche conto ebbero, si dice, principio dal Primaticcio, che lavorò di questa maniera molte camere, sale e logge al detto re”.
I due pittori divengono, dunque, in breve tempo accanitissimi rivali, e di conseguenza anche acerrimi nemici, nel contendersi le grazie del Re; e, benché questi fosse “soddisfattissimo” del lavoro svolto da entrambi i pittori – ci avverte ancora il marchese Bolognini Amorini, biografo (al limite dell’agiografico) del Primaticcio –, “non lasciò però la vigile gelosia, che della Reggia ha colla invidia strettissima colleganza, di andare serpeggiando, ed in diversi modi attaccare il merito del Primaticcio, il quale dissimulando, e sempre opponendo una prudente condotta, e modi cortesissimi, e opere virtuose giunse finalmente a sventare col tempo tutti i raggiri, e a superare totalmente l’invidia”.
Veleni e segreti
È però con l’arrivo in Francia dell’Imperatore Carlo V, in seguito al Convegno di Nizza e alla tregua tra Regno di Francia e Impero asburgico, che la rivalità tra i due, e i veleni interni alla corte relativi a chi, tra i pittori e i decoratori, dovrà aggiudicarsi il grosso dei lavori, che la situazione comincia a farsi incandescente. “Concluse felicemente, dopo lunga ed ostinata guerra, le trattative di pace fra Carlo V Imperatore e Francesco I”, scrive ancora il biografo del Primaticcio, “desiderosi ambedue di esternarla, l’Imperatore chiese al Re un abboccamento, e venne stabilito che Carlo con soli dodici uomini si sarebbe recato a Fontainebleu. Acconsentì di buon grado il Re, e tutte le cose volle magnificamente disporre pel ricevimento di sì possente Sovrano, ordinando al Rosso e al Primaticcio di ideare e fare tutti gli abbellimenti più possibili perché quel Palagio fosse riccamente adornato. Si divisero essi le incombenze, e fecero a gara a chi meglio risaltar facesse i propri lavori; e non è agevole il dire a chi dei due artefici si procacciasse maggior onore: erano ambidue grandi nelle loro rispettive maniere, e lasciarono gran nome per le opere fatte”.
Molte e differenti le opinioni degli storici successivi sul “primato” tra i due, ma è certo che, se il Rosso diede alla Galleria Francesco I alcune tra le opere più belle della Reggia, il Primaticcio, come annotarono in molti, fu il primo a portarvi “il buon gusto della Pittura e degli Stucchi” (così il Milizia). In compenso, il Rosso creò uno “stile” che non assomigliava e non voleva assomigliare a quello di nessun altro: “Con pochi maestri volle stare all’arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alle maniere di quegli”, scrive sempre il Vasari. È ancora il Vasari a sottolineare nei dipinti del Rosso “la terribilità di cose stravaganti”, le “bizzarrissime fantasie” e “le più strane cose del mondo”, mentre lo storico dell’arte settecentesco Dézallier D’Argenville scrive: “Maestro Rosso non pensava come gli altri: vi era, nelle sue opere, qualcosa di straordinario e di bizzarro che non piaceva a tutti”. Sicuramente, anche nella personalità del pittore v’era qualcosa di eccentrico, di “stravagante”, che era inevitabile riecheggiasse nelle sue opere, e gli creasse antipatie e incomprensioni. Vi fu, dunque, a Fontainebleu, competizione di opere, e competizione di personalità, e non senza colpi bassi: ma, almeno fino a questo momento, senza spargimenti di sangue; in futuro vedremo.
1 – continua
In questa rubrica vi raccontiamo storie, aneddoti, gossip e segreti, veri, verosimili o fittizi riguardanti l’arte e gli artisti d’ogni tempo. S’intende che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sia puramente casuale…
La puntata successiva di questo aneddoto la potete trovare qua:
Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 2)
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