Abbiamo visto, nella prima parte di questo racconto, come, alla Reggia di Fontainebleu, con l’arrivo rispettivamente di Rosso Fiorentino, nel 1530, e di Francesco Primaticcio, nel 1532, gelosie e invidie non mancassero, per stabilire chi dei due dovesse meglio contendersi le grazie del Re, Francesco di Valois. È però con la comparsa in scena di un nuovo arrivato che la situazione si fa davvero incandescente…
“A volere viemaggiormente stabilire le arti in Francia e rendere ognor più sorprendente la sua Reggia a Fontainebleu”, ci avverte infatti il marchese Bolognini Amorini, biografo ottocentesco del Primaticcio, Re Francesco “studiava di avere i più rinomati artisti d’Italia. Per lo che avuto da Luigi Alemanni una bellissima medaglia rappresentante Atlante che sostiene il cielo, egregia fattura di Benvenuto Cellini, gli venne ansietà di avere alla sua corte il raro artista”, il quale era nel frattempo stato rinchiuso in carcere da Papa Paolo IV “per le sue smoderate bizzarrie”.
Ma chi era Cellini? Era (come abbiamo già avuto modo di vedere in un nostro precedente aneddoto, Benvenuto Cellini, Madame d’Étampes e quel Giove superdotato), uno scultore straordinario soprattutto nelle opere di oreficeria, al punto che su questo, ci dice il Vasari, “non ebbe pari, né aveva forse in molti anni in quella professione et in fare bellissime figure di tondo e basso rilievo e tutte altre opere di quel mestiero: legò gioie et adornò di castoni maravigliosi, con figurine tanto ben fatte et alcuna volta tanto bizzarre e capricciose, che non si può, né più, né meglio imaginare”.
Era anche, però, un soggetto che non si era mai contraddistinto per misura e bontà d’animo, giacché risultava, come ebbe a scrivere il Vasari, “in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo”. Il suo arrivo alla corte di Re Francesco fu perciò il detonatore di una situazione già di per sé sul punto di esplodere.
Ora, è noto che, laddove vi sono soldi e potere, vi sono sempre anche liti e congiure e segreti legami per accaparrarseli. Ecco allora che la cordata che si sviluppa in quel momento a Fontainebleu vedrà contrapposti, fin dal primo momento, il nuovo arrivato (ben noto pel suo caratteraccio) Benvenuto Cellini da una parte, e il Primaticcio dall’altra. Quanto al Rosso, essendo già in lite col Primaticcio, ed essendo entrambi, lui e il Cellini, fiorentini, fa lega subito con lui. Perché Cellini, ci informa il marchese, appena arrivato “fece subito spiccare l’innata sua alterigia, guardando con disdegno e con disprezzo quanti artisti ivi si ritrovavano, e maggiormente quelli che non erano fiorentini; e più di ogni altro il prudentissimo Primaticcio, che supportar dovette una quantità d’ingiurie”.
A caccia del terribile veleno
Ma insomma, cosa accadde davvero alla corte di Re Francesco, quel 14 novembre del 1540, quando Rosso Fiorentino morì? Racconta il Vasari (ed è la sola fonte di cui disponiamo in proposito), che il Rosso dunque, sentendosi “a mal partito” per aver ingiustamente accusato l’amico e collaboratore Francesco di Pellegrino, decise “di uccidersi da se stesso, più tosto che esser castigato da altri”; fu così che, riferisce il Vasari, “prese questo partito: un giorno che il re si trovava a Fontanableò mandò un contadino a Parigi per certo velenosissimo liquore, mostrando voler servirsene per far colori o vernici, con animo, come fece, d’avelenarsi”.
Bisogna innanzitutto sapere che, ai tempi, per fare i colori si utilizzavano una gran quantità di sostanze, delle quali molte tossiche e velenose. Salnitri, ossidi, solfuri: i pigmenti nell’antichità, e anche fin quasi all’Ottocento, venivano mescolati con sostanze che non di rado erano altamente tossiche. Tra questi, v’era ad esempio l’arsenico. Alcune tinte, in particolare, come quelle verdi e gialle (moltissimo usate dal Rosso), contenevano spesso forti dosi di arsenico per rimanere più brillanti. È stato studiato, ad esempio, che Rosso utilizzasse colori preziosi come il giallo di arsenico in diverse occasioni, mentre altrettanto frequente era la presenza di arsenico nei verdi, anch’essi usati dall’artista con molta frequenza. Dunque, è evidente che dovesse avere una certa dimestichezza con i veleni.
Colori e veleni
Del resto, che nella pittura quattro e cinquecentesca gli artisti utilizzassero con grande frequenza sostanze velenose, è ormai cosa nota. E che sovente queste fossero, o potessero essere, letali, è altrettanto certo. La celebre “febbre strisciante” che si dice avesse colpito e condotto alla morte Raffaello, ad esempio, trattata poi con dei salassi che portarono il suo fisico al collasso, fu con molta probabilità causata da avvelenamento, forse lento e progressivo, provocato dalla continua e sistematica esposizione ai veleni contenuti nei colori che il pittore era solito utilizzare. Negli affreschi delle Stanze vaticane, ad esempio, è possibile trovare sostanze quali l’orpimento (trisolfuro di arsenico), a tratti mescolato col “realgar”, che altro non è che bisolfuro di arsenico. L’orpimento, in particolare, grazie al quale si ottengono degli accesi giallo-aranciati che ricordano la brillantezza dell’oro, utilizzato da molti tra i pittori veneti, oltre che da Raffaello e dal Rosso Fiorentino, se usato in maniera avventata e senza precauzioni, può risultare altamente tossico. Quanto a Leonardo, nel suo Codice Atlantico ci parla del rame rosso, che, con l’aggiunta di un po’ di arsenico (“Metti nella mistura il rame arso, ovvero la corrompi collo arsenico”), riesce a mantenere più stabilmente il colore.
E che di arsenico, o di veleno analogo, potesse trattarsi anche nel caso della morte del Rosso Fiorentino, ce lo dice indirettamente anche il Vasari, raccontandoci gli effetti che il veleno ebbe sul contadino mandato, a suo dire, dallo stesso artista a cercarlo: il quale, ci avverte il Vasari, “tornandosene con esso (tanta era la malignità di quel veleno) per tenere solamente il dito grosso sopra la bocca dell’ampolla turata diligentemente con la cera, rimase poco meno che senza quel dito, avendoglielo consumato e quasi mangiato la mortifera virtù di quel veleno, che poco appresso uccise il Rosso, avendolo egli, che sanissimo era, preso, perché gli togliesse, come in poche ore fece, la vita”
Ora, non solamente tutti gli studi concordano sul fatto che l’esposizione ad arsenico porta rapidamente a lesioni cutanee di vario genere, macchie sulla pelle e vere e proprie forme di erosione cutanea, ovvero i sintomi descritti dal Vasari sul contadino; ma è un fatto che tale sostanza, proprio per le sue caratteristiche (è inodore e insapore), è stata spessissimo utilizzata in casi di avvelenamento, anche nelle corti reali: recenti studi hanno ad esempio dimostrato essere stato l’arsenico la causa della morte del Granduca di Toscana Francesco de Medici e della moglie Bianca Cappello, così come lo fu, per fare un altro esempio, della morte di Pico della Mirandola. Nulla di più probabile, dunque, che proprio l’arsenico possa essere stato la causa della morte di Rosso Fiorentino, che aveva con questo e con altri veleni una carta dimestichezza, avendo spesso a che fare con svariate sostanze tossiche per la creazione dei colori.
Nitrati e salnitri
Ma sappiamo anche che analoghi sintomi si manifestano con l’esposizione o l’ingerimento di un altro potente veleno, il nitrato di potassio, comunemente conosciuto anche col nome di salnitro: il celebre manuale ottocentesco sulle sostanze venefiche Veleni ed. Avvelenamenti, pubblicato per la prima volta nel 1897 a firma del più eminente studioso della materia, il dott. Costante Ferraris, riferisce, a proposito di tale sostanza, che trattasi di “una sostanza bianca che cristallizza in prismi esagonali, solubile nell’acqua”, “di sapore fresco dapprima, poi piccante, salato ed amaro”, che “si trova in natura sulla superficie del suolo, sui vecchi muri” e che è “molto usato nella fabbricazione della polvere da sparo, dell’acido nitrico e di altri composti chimici”; la dose mortale, ci avverte sempre il dott. Ferraris, “è di 34 grammi”, ma, aggiunge l’insigne professore, ne “basterebbero anche 8-12 grammi presi in una volta”. I sintomi? “Un quarto d’ora o mezzora dopo l’ingestione insorge un senso interno di freddo con vomiti biliosi o sanguigni, diarrea copiosa, parimente sanguinolenta, intensi dolori addominali e gastrici. Rapidamente compaiono i sintomi d’un collasso generale e profondo: cute fredda, polso debolissimo, crampi muscolari, vertigini, sincopi, convulsioni e coma. La morte sopravviene ordinariamente in poche ore”.
Da non trascurare, la presenza, anche in questo caso, di “lesioni anatomiche” da contatto, che possono causare “macchie nere disseminate”, e la cute apparirà “qua e colà erosa”. Poteva dunque essere, anche il nitrato di potassio, altrimenti detto salnitro, il veleno che uccise il Rosso Fiorentino?
Suicidio o omicidio? Un caso da riaprire
Ma siamo poi sicuri che Rosso si sia dato la morte da solo? E, se così sono andate davvero le cose, perché usare proprio il veleno, che produce una morte lenta ed estremamente dolorosa (solitamente è infatti utilizzato come arma dagli assassini, decisamente più raro nei casi di suicidio), e non invece un altro mezzo, più veloce e meno doloroso, come la spada o il pugnale?
Viene dunque spontaneo chiedersi se, per ipotesi, il Rosso non si sia affatto suicidato: in tal caso, la teoria “sucidiaria”, fatta probabilmente trapelare all’interno della corte, e poi rilanciata dalla penna compiacente del Vasari, non sarebbe stata che un pretesto per coprire, con una coltre di silenzio, un ben più ampio, e ben più grave, complotto ai suoi danni, ovvero un caso di vero e proprio omicidio premeditato. Un omicidio “eccellente”, causato dalle faide tutte interne alla corte di Re Francesco, velocemente e opportunamente messo a tacere con l’assai poco convincente storia, rilanciata dal solo Vasari (e taciuta da tutti le altre fonti, che sull’argomento specifico sembrano stranamente reticenti), del suicidio causato dalla vergogna di “non solo avere falsamente vituperato l’amico, ma ancora machiato il proprio onore”.
Del resto, a voler essere un poco maliziosi, si scoprirebbe che di moventi per ordinare un delitto del genere ce ne sarebbero stati, e assai copiosi. E, seguendo la teoria del “cui prodest”, si finisce sempre per tornare a chi, nella Reggia di Fontainebleu, osteggiava apertamente il gruppo dei “fiorentini”, di cui facevano parte il Rosso – da tempo divenuto l’artista più potente, più pagato e più ricercato di Francia (“non più da pittore, ma da principe vivendo”) – e per l’appunto il Cellini, a cui i nemici davvero non mancavano. E chi era dunque, all’interno della Reggia, ad avere il maggiore interesse a far fuori il Rosso?
Il principale “sospettato” non può essere che il Primaticcio, che, dopo essersi conteso le grazie del Re e aver dovuto dividere per anni onori e dividendi con lui, alla sua morte subentrerà interamente nell’opera di pittura e decorazione della Reggia, divenendo, in pochissimo tempo, il nuovo responsabile dei lavori (e, come vedremo in seguito, arriverà al punto da cancellarne il più possibile le tracce, sovrapponendo le proprie pitture alle sue). Fatalità vuole che, a proteggere il Primaticcio, in contrasto con i fiorentini, ci fosse in quel periodo principalmente una donna. E non certo una donna qualsiasi…
Cherchez la femme
Si usava dire un tempo, quando c’’era un mistero da risolvere e un movente da trovare, cherchez la femme: cercate la donna. Ed ecco, anche nel mistero dei bisticci e degl’intrighi della corte di Re Francesco, una donna, come dicevamo, in effetti c’è. Si chiama Anne de Pisseleu d’Heilly, nota come madame d’Étampes, già damigella di corte di Luisa di Savoia, madre del futuro Re Francesco, del quale divenne l’amante fin dalla più giovane età.
Cosa avrebbe a che spartire, nella faida di cui stiamo parlando, e nella successiva morte del Rosso Fiorentino, madame d’Étampes? A voler guardare attentamente, di cose da spartire, Madame ne avrebbe parecchie: giacché, da quanto sappiamo da più fonti, oltre che dalla “malalingua” del Cellini, che lo racconta nella sua Vita, essa era legatissima al Primaticcio, che instancabilmente sosteneva e proteggeva; e poi, stando a quel che ci riferisce sempre il Cellini, e che da più fonti è del resto confermato, essa fu acerrima nemica del Cellini fin da quando mise piede a corte, al punto che, tra i due, vi furono ben più d’una discussione e d’uno sgarbo (ne abbiamo già ampiamente parlato in un nostro precedente aneddoto, Benvenuto Cellini, Madame d’Étampes e quel Giove superdotato). E, se in questa vicenda si può ben dire che il Cellini fosse, per usare una metafora calcistica – con le sue intemperanze e la sua irruenza –, l’attaccante e il “bomber” della squadra dei fiorentini, il Rosso Fiorentino ne era indubbiamente il capitano.
Se dunque madame d’Étampes aveva, è il caso di dire, il dente avvelenato contro il Cellini, nondimeno lo doveva avere a maggior ragione contro il Rosso Fiorentino, che del suo protegé, il Primaticcio, era il “gran nemico”, nonché il principale ostacolo allo sviluppo sua carriera, dovendo sempre con lui contendersi le grazie del Re e nel primeggiare coi suoi dipinti nella Reggia.
Arrivista, ambiziosa, egocentrica e terribilmente vendicativa, madame d’Étampes interpreta senza ombra di dubbio un ruolo non indifferente nelle vicende di corte di Re Francesco e nei suoi rapporti coi pittori. E, punto da non sottovalutare, essa aveva una certa familiarità, in quanto anch’essi suoi protegés, proprio con alcuni personaggi che coi veleni avevano molta, molta dimestichezza, come in seguito avremo modo di vedere…
2 – continua
In questa rubrica vi raccontiamo storie, aneddoti, gossip e segreti, veri, verosimili o fittizi riguardanti l’arte e gli artisti d’ogni tempo. S’intende che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sia puramente casuale…
La prima parte di questo aneddoto la trovate qua:
Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 1)
La puntata successiva di questo aneddoto la potete trovare qua:
Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 3)
Le puntate precedenti degli aneddoti sulle vite degli artisti le potete trovare qua:
Picasso e quella strana passione per il bagno
Manet, Monet e quel giudizio velenoso su Renoir
Annibale Carracci, i tre ladroni e l’invenzione dell’identikit
Quando Delacroix inventò l’arte concettuale
Il senso di Schifano per la logica e per gli affari
Gentile Bellini, lo schiavo sgozzato e il mestiere della critica
Bacon e il giovane cameriere bello come il Perseo del Cellini
Filippo Lippi, quando l’arte lo salvò dai turchi
Turner: il mio segreto è disegnare solo ciò che vedo
Renoir e il fuggitivo di Napoleone III travestito da pittore
Di quando Renoir fu scambiato per una spia
Renoir e la politica del turacciolo
Corot, il falso Corot e la crociata contro gli Albigesi
Tamara de Lempicka e D’Annunzio, di un ritratto mai fatto e di un amplesso mai consumato
Modigliani e quell’affresco sparito da Rosalie di Montparnasse
Prassitele e il trucco della cortigiana Frine
Bruegel il Vecchio e quella gente che non voleva proprio uscire dalla chiesa
Di Vedova e Turcato, e di un wc intasato
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Di Rembrandt, della sua avidità e di quella strana abitudine di falsare il prezzo delle aste…
Quando Depero per poco non ammazzò Balla a pistolettate
Franco Angeli e un ubriacone di nome Kerouac
Tiziano o del modo di assicurarsi un posto all’osteria
Angelo Morbelli e quella propensione un po’ troppo estrema pel realismo sociale
Il senso di Winckelmann per i bassifondi
Benvenuto Cellini, Madame d’Étampes e quel Giove superdotato