Sono ormai arrivati i giorni più tetri dell’anno: che si parli di Halloween o del giorno dedicato ai defunti, la morte resta presente nell’immaginario collettivo come un momento da temere e rispettare, ma anche da affrontare con le proprie intime percezioni. Analizziamo di seguito cinque interessanti momenti in cui l’arte, con le sue più diverse sfumature, ha esorcizzato l’idea della morte.
Spiriti di Madreperla – Rebecca Horn
Nel 2002, Rebecca Horn presentava “Spiriti di Madreperla”, a Piazza del Plebiscito, Napoli. L’opera faceva parte del progetto “Piazza d’arte”, che prevedeva l’alternarsi annuale di installazioni site-specific. Una serie di piccoli teschi neri incastonati tra i sanpietrini, tipica pavimentazione della città, sembravano saltar fuori dalle viscere della terra. Sovrastato da aureole fluttuanti, questo meraviglioso lavoro simboleggiava perfettamente il rapporto di Napoli con la morte, fatto di sudditanza ma anche di interferenza. L’artista tedesca recentemente scomparsa, infatti, aveva realizzato i calchi dei teschi da una delle famosissime capuzzelle presenti al Cimitero delle Fontanelle: un luogo misterioso ed affascinante dove, a metà ‘900 circa, si fece largo il culto delle anime pezzentelle.
Tale pratica, al limite tra paganesimo e cattolicesimo, consentiva a chi accudiva una capuzzella di poter ottenere fortuna e regali dall’aldilà, in cambio di preghiere e suppliche affinché, per queste anime del Purgatorio in transito verso il Paradiso, il viaggio divenisse più “scorrevole”. Rebecca Horn si è trovata di fronte ad una vera e propria volontà di cambiare “lo stato della morte”, dove un comune teschio diviene pregato e preghiera, nella città che affaccia su quella che Virgilio definiva la porta dell’Ade.
Come spiegare la pittura a una lepre morta – Joseph Beuys
Correva l’anno 1965 e l’artista tedesco, nella galleria Schmela di Düsseldorf, aveva il volto cosparso di miele e foglia oro. In quella che è una delle sue più intense e poetiche performances, Beuys tiene in braccio una lepre morta. In questo atto intimo e tenero, che il pubblico poté ammirare unicamente dall’esterno, l’artista le parlava, spiegandole minuziosamente tutte le opere pittoriche presenti in galleria: se da un lato la fruizione pareva impossibile, dall’altro sembrava plausibile che il tocco magico dell’artista-sciamano potesse oltrepassare i confini della vita.
La morte, in quella performance, era di duplice natura: c’era sì quella reale del povero animale, ma c’era anche quella simbolica dell’arte, di cui Beuys condannava la contemporanea mondanità. Bisognava tornare quindi ad una concezione di arte più istintiva, naturale e profonda, affinché la sua eco potesse realmente raggiungere l’irrangiungibile: l’immortalità.
Fotografie post-mortem
Nel XIX secolo l’alto tasso di mortalità, soprattutto infantile, non lasciava spazio a ricordi tangibili e numerosi della persona cara che si perdeva. D’altronde, l’arte della fotografia era relativamente recente e i dagherrotipi, seppur più convenienti di un ritratto, non erano di uso quotidiano. La fotografia veniva quindi utilizzata di rado per fissare momenti di grande importanza, ma la peculiarità della post-mortem, era quella di catturare l’immagine di un caro defunto con le sembianze di chi fosse ancora vivo: attraverso particolari supporti meccanici, il corpo veniva sostenuto per rendere possibili posizioni erette o da seduto. La scena, invece, si svolgeva mentre il soggetto era circondato dai suoi effetti o affetti personali.
L’inquietudine maggiore di questa lugubre arte, che ancora oggi resta una tetra parentesi della storia della fotografia, era sicuramente l’effetto ottenuto a causa della vacuità dello sguardo e la rigidità del corpo. Eppure, questa sorta di “mummificazione visiva”, ha evidentemente consentito di alleviare il dolore di perdite premature e rafforzare il ricordo di quanto visto e vissuto per troppo poco tempo.
Lezione di anatomia – Rembrandt
Capolavoro del 1632, il pittore olandese eseguì quest’opera su commissione: la dissezione da parte del dottor Nicolaes Tulp del corpo di un criminale condannato ad impiccagione. Quello che Rembrandt ci mostra è una rappresentazione della morte quanto più gelida ci sia. Dove un corpo è solo un corpo e non vi è gerarchia alla fine del nostro cammino.
Il gioco di luci – fredde, gelide – puntano l’attenzione su quello che non è altro che un cadavere, figlio di una Natura che dà e che toglie, madre di tutto ciò da cui veniamo e a cui torniamo. Non c’è misticità, devozione, meditazione: Tulp è chiaramente spavaldo e sicuro nel mostrare agli allievi un ammasso di ossa e muscoli. Realismo, logica e scienza regalano la visione dell’inevitabile cammino che tutti accomuna. E quando non c’è spazio per i personalismi e le peculiarità, non resta che una cavia da studiare e osservare nella sua sola e nuda presenza fisica.
Installazione della Chiesta di San Giorgio, Lukova – Jakub Hadrava
Quello che l’artista ceco è riuscito a fare è stato ribaltare il flusso direzionale vita-morte. Attraverso la sua arte, ha recuperato una Chiesa abbandonata, poco distante da Praga, risalente addirittura al XIV secolo, popolandola con numerose presenze apparentemente soprannaturali. L’effetto di questa installazione di lenzuola-fantasmi, dove anime perdute appaiono pregare in fila lungo le panche di legno, è potente e confusionario, poiché crea la concreta percezione di una moltitudine – seppur esanime, seppur artistica. Jakub Hadrava ha ridato vita all’abbandono, alla solitudine, alla decadenza, a ciò che spesso è semplicemente un altro modo di morire, e lo ha fatto unendo arte, architettura e teatralità. Ad oggi, quella piccola Chiesa in una remota località della Repubblica Ceca sta ricevendo sempre più visite e donazioni ai fini di un suo restauro, e lì dove un tempo regnavano incuria e negligenza, ci sono ora dei fantasmi a combattere per la sopravvivenza.