Con che colore mi vesto? Seguiamo l’esempio dei pittori

Il direttore di Artuu mi chiede di scrivere per la rivista che dirige. Io dico: “ma un pezzo o scrivere regolarmente?”. “Anche una rubrica”, mi fa lui. “Per parlare di moda. Perché anche la moda è arte”. Ecco, davanti a richieste del genere tendo a ritrarmi, mi piace scrivere ma avere un impegno fisso fa già professione e io invece, mi piace ricordarmelo, io faccio altro, stilista, direttore creativo, ma di fondo una persona che da molto tempo mette i propri pensieri al servizio degli altri.

E come? Beh, quando penso a un capo di abbigliamento sicuramente non lo vedo indossato da me. Se fosse per me indosserei sempre le stesse tre cose, ma capisco che è un mio limite e allora siccome non ho mai superato questa frontiera che tende a rendermi pauperista, che è al confine tra il disinteresse e forse, dico forse, lo snobismo, evidentemente ho pensato di dare forma ai miei pensieri, spesso basati su immagini molto definite, in cui intravedo in filigrana una donna o un uomo o anche un bambino che indossano quello che io penso giusto anche se, incredibilmente, alla fine, quello che io penso e poi disegno e poi mando in produzione entra solo in minima parte nel mio armadio. E mi chiedo: “forse perché essendo ligure sono parco?”.

L’errore che si fa spesso, in Italia, è pensare ai Liguri come affetti da banale tirchieria. E no, noi viviamo in una regione stretta stretta, dobbiamo compensare queste dimensioni anomale che recano scarsità – siamo a incudine tra il mare e le montagne – e la parsimonia nasce così spontaneamente nel momento in cui, magari quando abbiamo nove anni o magari dodici (perché siamo andati in gita a Firenze, ad esempio) ci rendiamo conto che il territorio che abitiamo è diverso da tutti gli altri. E allora, quella che per gli altri è tirchieria o parsimonia, in realtà non è altro che espressione millenaria di gente abituata a vivere in una terra bellissima ma anche a suo modo aspra, a tratti respingente.

Perché vi racconto tutto questo? Perché il direttore di Artuu mi ha chiesto di parlare di Moda e a me non viene facile farlo perché la Moda la penso ma non la scrivo, quindi ci giro un po’ intorno, ma neanche tanto in realtà, perché la verità è che per me la moda è espressione dei miei pensieri. Quando lavoro, cioè sempre, non penso alla moda, forse la vivo sulla pelle con quella sensazione che voglio descrivervi dicendo: d’estate prendi troppo sole senza crema protettiva, ecco mi scotta un po’ così, il pensiero della Moda, quello che gli altri considerano look, stile, per me ha più a che fare con un pensiero fisso, perché brucia un po’, ma anche con il cibo, con le abitudini, con i piaceri. Con la pelle che te la senti addosso.

E dunque ho sempre osservato le persone ed i loro abbigliamenti come esemplari unici, prototipi, ognuno alla ricerca di sé stesso. Dunque, “Massimo Piombo, vuoi scrivere di moda o no?”.  Sento il direttore che insiste e io che cerco di sfuggire alle sue grinfie che peraltro ben conosco. E allora eccomi pugnace, dirò la mia. Anni fa ero più monocolore; amavo il blu, solo il blu, e i colori entravano a sorpresa come un’improvvisazione teatrale che forse rappresentava più che altro le mie indecisioni. Poi, nel tempo, il colore, quello vero, quello base, quello che forse è stato davvero il compito più arduo di Dio – quando decise di creare questa sfera che ci contiene –, mi è entrato in testa, nelle vene, negli occhi, nelle tempie. È stata come un’eruzione che osservi da lontano, sai che non potrà farti male, la lava scorre laggiù ma in quel momento godi di una situazione terribile perché  il fatto di starne a distanza di sicurezza fa sì che lo si possa trasformare in  un grande spettacolo. Ecco, il colore è diventato, dopo un’eruzione mentale della quale non ho più traccia, uno show che intendo offrire a coloro che decidono di vestirsi con ciò che io immagino per loro. E mai per me…

Ora che ripenso era un giorno, forse, in cui, chissà perché, mi dico “la moda stava invecchiando”, che poi è un pensiero senza senso, non è la moda che invecchia, caso mai siamo noi che, cambiando, la vediamo statica. Dunque immobile. E allora ho iniziato a pensare che, per uscire dal guado, servisse energia, e dunque mi sono aggrappato al colore, che può ubriacarti per quanta forza ti può dare. E da allora ci convivo, felicemente, che poi non è neanche vero perché io sono sempre quello del blu – perché mi castigo – in fondo, ma se devo pensare agli altri, a coloro che magari cercano un capo che porta il mio nome, allora li voglio felici, sicuri, e anche casuali, non “casual” che è altra cosa, casuali nel senso di Renoir, che un giorno disse: “Una mattina, siccome uno di noi era senza nero, si servì del blu: era nato l’impressionismo”.

Frédéric Bazille Ritratto di Pierre-Auguste Renoir (1867).

Immagino la scena, immagino quanto, dentro l’arte e la moda appresso a lei, ci siano tentavi di sentirsi più furbi dei fruitori medesimi. Però davanti al genio di Picasso cosa mai potremmo opporre per essere certi del fatto che nessuno ha il colore giusto o quello preferito? Pablo si alza una mattina e dice o pensa: “Quando non ho più blu, metto del rosso”. Come dire: la casualità regna sul mondo.  Buon colore a tutti.

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