Del perchè questa Biennale non è piaciuta al sistema dell’arte di casa nostra. E a noi sì

Al sistema no, non è piaciuta per nulla. I commenti, in Italia, vanno dai più blandi, “Una Biennale dedicata agli esclusi. Ma l’arte è soffocata dal messaggio” (Demetrio Paparoni su Il Domani), o “la Biennale offre sempre un piatto ricco, anche quando il curatore designato pare avere vissuto una crisi di identità” (Angela Vettese su Artribune), fino ai più drastici, come Ludovico Pratesi, che, sempre Artribune, scrive che “da quattro anni la Biennale si è trasformata in un gigantesco redde rationem degli esclusi, con buona pace degli artisti ai quali invece interessa porre delle domande su un presente sempre più complesso e contraddittorio” (e perché mai, poi, nella bislacca logica del critico, gli “esclusi” non sarebbero invece interessati a porre domande sul presente?). Fino ai più tranchant: tale Antonio Gurrado su Il Foglio, autorevole il giornale e un po’ meno il suo estensore, che in apertura d’articolo non a caso precisa: “Di arte non capisco nulla”, e però ci va giù con la mannaia: “Un’idea di arte passatista e miserabile alla Biennale di Venezia”, scrive, avendo letto –avverte però – solo i comunicati stampa, e desumendone dunque il senso (un po’ come il ministro Sangiuliano, che i libri dello Strega, come da celebre sfottò di Geppi Cucciari, li giudica dalle copertine): “L’arte non la capisco ma le parole sì, e sono “tradizione”, “archivio”, “lutto”, “immigrati”, “morte”, “diseguaglianza”, “povertà”. Ciascuna di esse accende nel cervello un campo semantico che ci fa associare la Biennale a un’idea di arte passatista, lutulenta, miserabile”.

Forse avrebbe dovuto andarci, Antonio Gurrado, in Biennale, per verificare di persona se questa Biennale, coloratissima, gioiosa, sorprendente, trasversale, contraddittoria e multiforme fosse davvero “passatista e miserabile”: no, non lo è affatto, diciamo noi, che ne abbiamo attraversato una parte considerevole, almeno quanto è umanamente possibile fare in una settimana di inesauste scarpinate tra Arsenale, Giardini, calli, campi e ponti necessari a raggiungere ogni singola porzione di padiglione esterno, ormai sempre più dislocati e “delocalizzati”, come si dice della produzione industriale e manifatturiera nella moderna filiera produttiva e industriale.

E, proprio come nell’industria moderna (se ancora si può chiamare così), ma a parti invertite, è proprio vero, sul podio questa volta (e già, come sottolineato da più parti, anche in parte nelle edizioni precedenti, quelle di Cecilia Alemani e di Christine Macel, non a caso tra le più belle, assieme a questa, degli ultimi decenni), a salire sul podio, dunque, questa volta, non sono stati più (o perlomeno non più soltanto) gli artisti scelti dalle gallerie “che contano” e dai giochini di potere dei miliardari che fanno il bello e il cattivo tempo nel sistema internazionale, ma anche e soprattutto loro, gli eterni esclusi, appunto (che, con buona pace, questa volta, di Pratesi, di domande su un presente “sempre più complesso e contraddittorio” ne pongono eccome, e in ogni modo: basta saperle ascoltare, senza paraocchi e pre-giudizi).

Gli esclusi, dunque, certo: gli artisti locali e marginali, gli “stranieri in patria”, gli artisti provenienti, ed espressione, delle minoranze etniche e linguistiche, gli artisti queer, i collettivi, quelli che usano materiali insoliti, i ricamatori e le ricamatrici, i costruttori di arazzi e di tappeti, i mosaicisti, i muralisti, i ceramisti, i videoartisti, i documentaristi, i registi, i danzatori, i performer, i produttori di immagini in ogni sorta di materiale, dal più arcaico al più contemporaneo e tecnologico, dall’argilla alla Sci-Fi fino alla AI; oltre, naturalmente, a una marea, una valanga, uno tsunami di pittori e di pittrici, di scultori di scultrici, di creatori e creatrici di forme in senso tradizionale e in forme iper-innovative, con mille e mille diversi approcci stilistici e riferimenti estetici differenti, dall’astrazione alle mille e mille sensibilità del figurativo contemporaneo. Un tributo di tecniche e di identità, di immaginazione, di materiali, di riferimenti, di spunti, di diversità.

In molti, nel vedere questo profluvio di colori, di materiali, di creatività, di immaginazione, di riferimenti che non conoscono o non capiscono, hanno scritto che tutto questo è, o sfiora, il “folclore”; come ha scritto Artslife, “un pellegrinaggio tra il National Geographic etnoantropologico e l’avventura turistico emozionale”; o, come scrive Francesco Bonami sul Foglio, “non è semplice da analizzare senza cadere nella sviolinata postcolonialista, il peana dei diversi modernismi, la barba della correttezza politica e di genere o, dalla parte opposta, la ghettizzazione d’ufficio nell’universo del folclore tout-court; o, come scrive sempre la Vettese, apparentemente lodando il curatore per affossare in realtà la sua creatura, “La Biennale di Pedrosa è un atto di coraggio [nel] fuggire da nomi prevedibili e vendibili, che però non consola dell’eccesso di opere etnografiche, documentarie, a volte al limite della manifattura iperlocale di arazzi, ricamini e ricordini”; o addirittura, capovolgendo completamente il senso di ogni discorso razionale, questa Biennale sarebbe una sorta di “neo-colonialismo” (così Luca Rossi, artista multiplo che da anni gioca la sua fortuna sulla critica al sistema pur stando accuratamente e furbescamente dentro il sistema, ben stretto nelle sue logiche e nei suoi riferimenti culturali): “La Biennale”, scrive l’artista multivoce sui suoi canali social, “accoglie lo ‘straniero’ e il diverso come un ‘gioiello esotico’ da offrire al gusto e al mercato dell’arte occidentale. Una nuova forma di colonialismo in cui lo straniero e il diverso sono vittime compiacenti e in cui questo meccanismo consola il nostro (presunto) senso di colpa e rassicura le nostre coscienze”. Come se, per ipotesi, nella filiera produttiva della grande moda – per fare un esempio –, oggi saldamente in mano alle company e ai marchi del lusso occidentale, arrivassero d’un tratto sul podio delle sfilate milanesi e parigine un giorno (e speriamo che possa presto avverarsi anche questo) i mille stranieri e diseredati e disperati che lavorano, sfruttati, dietro le quinte dei grandi marchi senza avere né nome né adeguato compenso, portando la propria creatività, la propria estetica e il proprio nome alla ribalta, guadagnando anche finalmente quel ch’è giusto in termini di fama e di compensi, e qualcuno, allora, storcesse il naso dicendo che si tratta di “neocolonialismo”: eh no cari miei, è, semmai, la rivincita degli eterni esclusi, finalmente liberi di esprimersi e di giocare la propria partita ad armi pari con gli eterni vincenti del sistema: non offrendo, cioè, a prezzi stracciati la propria manodopera e la propria creatività dietro le quinte ai padroni del vapore perché ci facciano quel che vogliono, ma vendendo il proprio nome, la propria sensibilità e il proprio prodotto a testa alta ai consumatori di tutto il mondo.

Folclore e “National Geographic”, dunque, dicono i critici: perché finalmente le mille e mille e mille tecniche e i materiali da sempre utilizzati in altre parti “minoritarie” del mondo, dall’Africa all’Amazzonia, sarebbero finalmente, con la loro gioia, i loro colori, la loro tensione critica e a volte la loro disperazione, sul podio e al centro dell’attenzione dell’arte mondiale. Ora, il punto è: ma chi lo dice che l’arte, lo statuto stesso dell’opera d’arte, la sua funzione, la sua rappresentazione, il suo senso, la sua essenza e la sua apparenza, debba essere espressione solo e per forza dell’élite colta, ricca, bianca – quello che un tempo si chiamava “WASP”? Chi lo dice che, se è espressione millenaria d’altro, di altri riferimenti culturali, di altre estetiche, di altri materiali, di altre storie che non siano le nostre, debba per forza essere bollata come “folclore”, National Geographic, “opera etnografica”? Ci parlano di neo-colonialismo, ma il colonialismo, come il patriarcato, è nello sguardo di chi lo pratica: se vedi tutto ciò che non ti appartiene con il sussiego dell’uomo maschio bianco occidentale, e ciò che non rientra in questi canoni come un ninnolo da metterti in casa, e non con la stessa dignità con cui tratti i ninnoli (quelli sì, per davvero, sebbene costosissimi) realizzati da un furbo miliardario come Jeff Koons, il problema è tuo, e non dell’opera “esotica” che ti metti in casa. Se guardi ogni espressione che non appartiene alla tua cultura come pura espressione di esotismo kitsch, di curiosità estetica buona per i mercatini di trouvailles, lo sguardo e il pensiero neo-colonialista sono i tuoi, e non di chi, con coraggio, con intelligenza e curiosità, come Pedrosa, è andato a scovarli in giro per il mondo, e non solo affidandosi, come hanno fatto in passato decine e decine di curatori prima di lui, alle gallerie chic di New York.

Per concludere: non è che questa Biennale ci sia piaciuta perché fatta dai perdenti della storia, dagli artisti provenienti dalle marginalità del mondo e dalle mille forme di diversità, etniche, culturali, sessuali; ci è piaciuta perché, dopo anni di Biennali fatte di lavori tutti uguali e tutti ugualmente omologati sullo stesso impianto concettuale e sullo stesso stile, quasi come se ci trovassimo di fronte a un unico linguaggio, obbligatorio per tutti e imposto dall’alto da un sistema asfissiante e ammorbante come una brutta parodia di un racconto di Orwell, finalmente si respirava aria nuova, di nuovi/vecchi materiali, di nuove/vecchie narrazioni, di nuove/vecchie iconografie (vecchie, sì, in quanto sono materiali, narrazioni, iconografie che spesso datano da tradizioni centenarie o millenarie, ma alle quali solo oggi viene data dignità e importanza dal sistema “ufficiale” dell’arte). Ci è piaciuta, proprio perché non conoscevamo che una parte minima, infinitesimale vorrei dire, degli artisti presenti e invitati, e proprio per questo eravamo curiosi (come avveniva per l’appunto nelle primissime edizioni della manifestazione, di cui abbiamo dato testimonianza qua, nel nostro articolo “Origini della Biennale”) di sapere chi fossero, cosa facessero, che storia avessero alle spalle questi artisti a noi completamente sconosciuti: quali fossero i loro background, la loro ricerca estetica, la loro poetica e il loro impianto teorico (e proprio per questo, unici in tutto il sonnolento panorama dell’informazione d’arte di casa nostra, abbiamo voluto documentare, in maniera sistematica e approfondita, attraverso un’indagine in più puntate su tutti gli artisti invitati nella mostra internazionale di quest’anno). Per questo non citiamo, qua, neppure un artista: perché i nomi, a tutti noi, giornalisti, critici, addetti ai lavori o “semplici” lettori, dicono poco o niente, e a nulla servirebbe dire “c’è questo o c’è quello”, senza approfondire la loro ricerca (cosa che invece facciamo nei molti approfondimenti del nostro Speciale Biennale, firmato dai tanti collaboratori del nostro magazine).

Per concludere: questa Biennale, sì, ci è piaciuta. Ci è piaciuta molto, al punto che dovremo tornare, e tornare, e tornare a vederla, per scoprire le moltissime cose che nella prima visita ci erano sfuggite o avevamo visto solo superficialmente. Ci è piaciuta, perché è tornata alla sua vera essenza, alle “origini della Biennale”, appunto: nel suo offrire al visitatore sguardi nuovi dal mondo, forme ed espressioni sconosciute, visioni, immagini, idee e poetiche che solo a chi non è curioso di ciò che non conosce possono apparire “esotiche”, e invece sono semplicemente “altre”: “Stranieri ovunque”, appunto. Come diceva Ugo Ojetti agli albori della manifestazione, “che esistesse una singolare pittura danese o svedese o norvegese o finlandese… nessuno del grosso pubblico sapeva e appena l’un per cento dei pittori ne favoleggiava come di meraviglie sperdute oltre il circolo polare e note solo a pochi esploratori arditi”. Ecco, ora, cari critici e giornalisti abituati a guardare solo dentro e intorno al vostro ombelico, sappiatelo dunque: l’arte, l’immaginazione, la poesia, esistono anche al di là dei ristretti confini cui è stata in questi decenni confinata dalle gallerie newyorchesi o tedesche o inglesi a cui voi guardate come gli unici fari del contemporaneo, le tematiche “complesse” del presente sono trattate anche in altri modi e con altre forme che non siano quelle dei bastoni appoggiati ai muri e dei tubi innocenti da cui escono dei suoni, l’amore si pratica anche in altre forme e con altre tenerezze che non siano quelle che detta la logica binaria. Il mondo, in una parola, è anche al di fuori, e al là, del vostro, e del nostro, ombelico. Fatevene una ragione.

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