In questa rubrica vi raccontiamo storie, aneddoti, gossip e segreti, veri, verosimili o fittizi riguardanti l’arte e gli artisti d’ogni tempo. S’intende che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sia puramente casuale…
Vedova e Turcato furono sempre amici, anzi, come potremmo dire citando certa filmografia recente, amici nemici, o nemici-amici. Di loro si racconta una storia, che negli ambienti artistici si assicura sia una storia vera, e non una fola o una leggenda.
Per parlare del loro sodalizio bisogna partire da lontano, da quando Roma era occupata dai nazifascisti e molti, anche tra gli artisti e i letterati, soprattutto se ebrei o noti antifascisti, furono costretti a riparare fuori dalla Capitale. Così fecero anche i fratelli Afro e Mirko Basaldella, che più avanti furono tra i rinnovatori della pittura informale in Italia. “Nel lasciare Roma”, racconta Ugo Pirro in quel curioso librettino che è un concentrato di storie, aneddoti e strampalerie della vita artistica del primo dopoguerra italiano intitolato Osteria dei pittori, “Afro affidò il suo studio a Turcato e Turcato ospitò Vedova. Di lui Giulio (Turcato, ndr) diceva che si fosse fatto crescere la barba perché non aveva mento, ma erano vecchi amici e benché polemizzassero sempre sui colori e su tutto, costituivano un sodalizio perpetuo di artisti dediti al disordine, oltre che all’arte; in pochi mesi quello studio pulito e arredato, lo resero irriconoscibile e invivibile, ma indifferenti continuarono la loro opera di distruzione. Non si trovavano né scarpe, né suole e ognuno rimediava come poteva”.
Tra le altre distruzioni, proprio per rifare le suole delle scarpe (in tempo di guerra le scarpe erano merce rara e costosa, e una volta bucate o rotte le suole non si andava, come s’usa oggi, al negozio a comprarne un altro paio, ma le si risolava come si poteva), usarono nientemeno che la pelle di una poltrona Frau, che faceva bella mostra di sé al centro dello studio (una storia parallela, non troppo diversa, vuole che anche Mario Mafai, che in tempo di guerra fu ospite per un periodo nello studio del collezionista Emilio Jesi, cui si deve la famosa collezione che oggi costituisce un importante lascito della migliore arte del primo Novecento alla Pinacoteca di Brera, avesse utilizzato la pelle di un divano per risolare le sue scarpe, tenendo invece il cotone delle tende del salotto per farne mutande per la moglie e le tre figlie).
Non contenti di questo, dunque, i due futuri dioscuri dell’astrattismo italiano si servirono a man bassa e senza risparmio di una grande cassa piena di colori, che il povero Afro aveva lasciato loro in eredità durante la sua fuga dalla Capitale. “I due”, racconta ancora Pirro nel suo libro, “se ne servirono senza risparmio: svuotarono i tubetti sulle tele e imbrattarono pareti e mobili con naturale noncuranza”.
“Rosso, che ti voglio rosso! Verde, che ti voglio verde!”, pare urlasse Vedova, in preda a una furia senza fine, spargendo non solo sulle tele, ma ovunque nello studio, imbrattando mobili, pareti e pavimento, i colori lasciati loro in custodia dal povero Afro. Entrambi, infatti, pare non utilizzassero alcuna tavolozza: impastavano i colori dove capitava, senza risparmiare nulla, né mobili né librerie né suppellettili, e per non far mancare nulla a quel povero e bistrattato studio, gettavano poi le boccette di colori vuote nel water. Fu così che il water un bel giorno si intasò: “la merda d’artista invase lo studio, ma non la misero in scatola, come anni più tardi avrebbe fatto Manzoni”, chiosa causticamente Pirro: “I tempi non erano maturi”.
“Nonostante tutto”, continua lo scrittore e compagno di strada di tanti artisti di quegl’anni, “i due amici continuarono a vivere e a dipingere fra poltrone sfondate e sporcizia: nulla poteva espellere da quello studio maleodorante quei due artisti geniali e sporcaccioni. Oltre tutto non avrebbero saputo dove rifugiarsi”.
Eccoci dunque all’epilogo della nostra storia: Roma viene liberata, i nazisti risalgono la penisola e si rifugiano, insieme agli ultimi fascisti irriducibili, in quel di Salò, e gli espatriati cominciano a tornare dal loro esilio. Quando Afro tornò allo studio, e vide come lo avevano conciato quei due scellerati, li scacciò a calci e impose loro di risarcirlo, se non della povera poltrona Frau, nalauguratamente danneggiata, per lo meno dei colori di cui si erano impossessati, causando tanti danni al suo povero studio. Così pare che Turcato, quando racimolava qualche soldo, andasse a bussare alla porta di Afro per lasciargli qualche tubetto di colore. “Afro, apri, sono io… Turcato!”, gridava, restando lontano dalla porta. “Ti ho portato il carminio…” (o un altro colore). E andava via, senza attendere che Afro gli aprisse.
“Turcato, per la verità”, annota ancora Pirro, “ha sempre giurato e spergiurato che a intasare il cesso fu Vedova, che, ormai tornato a vivere a Venezia, non poteva smentirlo”.
Felice Chilanti, giornalista e scrittore che fu di stanza a Roma in quel primo dopoguerra, sostiene che fu proprio quell’intasatura del cesso di Afro la causa scatenante dell’insanabile divisione che si creò, tra bisticci, battibecchi, accuse e controaccuse, stilettate sui giornali e persino qualche rissa in strada, fra realisti e astrattisti in quel primo dopoguerra, e, tra gli astrattisti, tra i “marxisti e formalisti” del Gruppo degli Otto e di Forma 1 da una parte, e altri, come Afro e Mirko Basaldella, che tra astrazione e figurazione, rimanevano però amici di Cagli, di Guttuso e della solida pattuglia dei realisti.
L’ultima parola in ogni caso l’ebbe proprio Turcato: non sappiamo se fosse riferito proprio a quest’episodio, ma è un fatto che, quando qualcuno gli chiedeva che cosa ne fosse del suo collega, rispondeva: “Vedova? Troppi peli per un coglione solo”.
Le puntate precedenti degli aneddoti sulle vite degli artisti le potete trovare qua:
Picasso e quella strana passione per il bagno
Manet, Monet e quel giudizio velenoso su Renoir
Annibale Carracci, i tre ladroni e l’invenzione dell’identikit
Quando Delacroix inventò l’arte concettuale
Il senso di Schifano per la logica e per gli affari
Gentile Bellini, lo schiavo sgozzato e il mestiere della critica
Bacon e il giovane cameriere bello come il Perseo del Cellini
Filippo Lippi, quando l’arte lo salvò dai turchi
Turner: il mio segreto è disegnare solo ciò che vedo
Renoir e il fuggitivo di Napoleone III travestito da pittore
Di quando Renoir fu scambiato per una spia
Renoir e la politica del turacciolo
Corot, il falso Corot e la crociata contro gli Albigesi
Tamara de Lempicka e D’Annunzio, di un ritratto mai fatto e di un amplesso mai consumato
Modigliani e quell’affresco sparito da Rosalie di Montparnasse
Prassitele e il trucco della cortigiana Frine
Bruegel il Vecchio e quella gente che non voleva proprio uscire dalla chiesa
Il prossimo aneddoto sulla vita degli artisti lo trovate qua:
Peggy Guggenheim e quel baciamano poco convenzionale di William Burroughs