La vita è bella perché manca di un copione, difetta di una prospettiva sicuramente definibile; di quella lineare coerenza che contribuirebbe ad una noia rifuggita come deleteria, spersonalizzante, proibita: lontana da un sé e dalle sue opportunità di costruzione, dallo stimolante e dall’irripetibile. Se c’è la noia, non ci siamo noi.
Eppure, paradossalmente, è questa che il tragico della vita ci fa apprezzare, vibrando l’onnipotente brama di piacere che ci muove: sembra insegnarcelo il recente Oliviero Toscani, impegnato in una strenua lotta per imporsi su una malattia subdola e feroce, almeno maestra dell’amore per gli istanti perduti, verso la diversità come valore. Entrambi, diversi e annoiati, il fotografo e comunicatore milanese ha cantati nel corso della sua densa e luminosa carriera, meglio anelando ai primi: l’arte e la fotografia – sostenne – devono provocare o diventerebbero noiose.
Abbiamo contezza di questo principio nell’evento tributatogli a Zurigo, nella sua Zurigo, dove il Museum für Gestaltung allestisce, fino al 5 gennaio 2025, la mostra Oliviero Toscani. Fotografia e provocazione, ovvero la più grande retrospettiva finora dedicatagli, dove l’intera sua opera si articola in uno spazio ampio e luminoso che vede dialogare volti e atteggiamenti immortalati sotto la nota egida di Benetton con la più provocante estetica anticlericale. Elle, Vogue, GQ non sembrano la regolare cometa di Toscani, più a suo agio con l’immagine come randello morale: è il caso della spigolosità di Isabelle Caro (1980-2010), modella anoressica ritratta per Nolita con l’obiettivo di denunciare le condizioni della categoria, e della composta mestizia di Rachele Mussolini a Predappio, alle esequie di un tristemente noto marito: era il 1957 ed Oliviero aveva appena 14 anni; ricorderà come il padre gli disse di essere stato più bravo di lui.
Difficile non associare un simile episodio alla sua intrinseca politicità futura, impegnata verso la discussione di schemi morali e consuetudini, dei razzismi e sui diritti civili, sull’autodeterminazione e del monolitismo dell’etica. Moda, cinema, ricchezza e povertà, pubblicità e tessuto popolare: tante storie, tante persone, tutte ritratte con la stessa dignità, con lo stesso rispetto, secondo l’abnegazione del professionista. Tutte a guardarsi negli occhi e a fissare i nostri, ingigantite in sale brillanti e slanciate.
Nelle sue immagini, d’altra parte, il rigore compositivo, comunque mai secondario, è evidentemente custode di ben altra chiave spirituale, e strozza il fragore del tema sociale ed il vociare indistinto dell’opinione pubblica, fremente come una nuvola di cicale e celata dall’intensità di uno sguardo. Lo sa bene Toscani, lo sa fare: si è formato proprio alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, dove ora ritorna a ribadire, forse nella curva finale, la potenza della fotografia come atto politico e come scelta d’azione per un fine più alto: divide et impera, sembra avere ordinato ai suoi scatti. Missione compiuta.