Sono cento i fotografi italiani che, nel periodo compreso tra l’inizio del secondo dopoguerra e l’oggi, trovano spazio nelle celle e nei corridoi dell’ex carcere mandamentale di Bibbiena, oggi prezioso Centro Italiano della Fotografia d’Autore. Il contesto è vivacissimo: nel cuore delle foreste casentinesi, Bibbiena, con le vicine Stia e Poppi, è centro imprescindibile della fotografia autoriale italiana, anche grazie alle gigantografie che pullulano nei vicoli e nelle piazze di questa porzione di territorio aretino.
Fotografia italiana. Mappe, percorsi, linguaggi è il titolo che sintetizza bene il plurale che caratterizza l’espressione fotografica presente. “Ho sempre pensato che il tempo di una foto non fosse quello dell’istante catturato nello scatto, ma quello della storia che sedimenta nel tempo il presente”. Sono parole di Uliano Lucas, uno dei fotografi protagonisti della ideale sezione della fotografia engagée, ovvero di una ricerca fotografica che intende farsi testimone del tempo che si vive, delle lotte e dei conflitti sociali che lo agitano, delle pulsioni che permettono alla società di interrogarsi.
A questa scuola fotografica possiamo ascrivere anche Massimo Sestini, con la sua celebre Mare nostrum, che ci mostra lo sguardo verso l’alto dei migranti intercettati da un elicottero. La prua della fragile imbarcazione che li trasporta è una freccia verso sinistra, una direzione geografica ammantata di speranza e di salvezza.
Testimone del tempo che vive è sicuramente Tino Petrelli: ormai iconiche sono le sue Tre ragazze, testimoni di un dato storico ormai accettato, quello relativo alla partecipazione alla Resistenza delle donne. Siamo a Milano e lo sguardo fiero e diretto delle tre donne armate ci mostra anch’esso una direzione precisa; quella della libertà e della parità. Sappiamo bene che questa immagine è stata scattata grazie alla posa per nulla spontanea degli uomini e delle donne raffigurati, ma ugualmente l’impatto che ha sull’osservatore è notevole: le dinamiche storiche e sociali avrebbero reso questa immagine da realismo magico.
Il 27 marzo 1992, Tony Gentile entra in un palazzo palermitano e riesce a cogliere l’istante in cui Giovanni Falcone sussurra qualcosa all’orecchio di Paolo Borsellino. Entrambi sono sorridenti e, grazie anche a questo elemento di superiorità morale ed etica rispetto al ruolo da entrambi ricoperto, la fotografia, dopo circa 4 mesi, all’indomani delle due stragi di Capaci e di via D’Amelio, diventa patrimonio collettivo e universale.
Quasi un quindicennio prima, Gianni Giansanti aveva immortalato, nei due significati di fotografato e reso immortale, il corpo esanime di Aldo Moro dentro l’altrettanto immortale Renault 4 rossa rende umanissimo il dolore per la perdita e un liturgico rispetto che irradia potente da via Caetani. Il punto di vista del fotografo è dall’alto, ma l’età di Giansanti nel 1978 è di 22 anni: l’ultimo atto di uno statista diventa il primo passo verso l’empireo di un giovanissimo aspirante fotografo.
“La forza di una fotografia è nella sua forza d’urto”. Il milanese Nino Leto ci sintetizza bene cosa può significare anche un solo fotogramma e quale carica esplosiva può sprigionare e le immagini di cui abbiamo sin qui parlato appartengono sicuramente a questa speciale categoria.
Ma nell’ambito di questa vastissima mostra sulle molteplici fotografie italiane (plurale dovuto dato l’arcipelago di stilemi e messaggi presenti), trova ampio spazio anche arte fotografica che sceglie un istante per dirci di quale essenza è fatto il soggetto raffigurato. E’ il caso di Aurelio Amendola e la sua serie tematica sulle combustioni di Alberto Burri. L’immagine catalogata con il numero quattro è tra le più intense del progetto. L’artista umbro ha tra sé e l’osservatore una grande fiamma che appartiene alla sua tecnica creativa, eppure sembra che, anche con il significativo apporto visivo di un braccio alzato quasi in segno di istintiva difesa, il fuoco si stia sprigionando dal petto.
Arte per l’arte è anche l’essenza della fotografia del marchigiano Mario Giacomelli. Io non ho mani che mi accarezzano il volto è il titolo tenero e avanguardista dell’immagine che ritrae un gruppo di preti che inscenano un giocoso e gioioso girotondo. La sperimentazione è stata una delle cifre artistiche di Giacomelli, eppure la fotografia presente in mostra è sicuramente reale, più dell’immagine severa che abbiamo della quotidianità ecclesiastica e di chi dovrebbe condurla.
Il bianco e nero è cifra stilistica prediletta anche da Mimmo Jodice, sicuramente fotografo attento alle dinamiche sociali. Ma, la veduta con frattura del borgo calabrese di Morano Calabro, ci riconduce a un modo di fotografare che non imita letteralmente la realtà: piuttosto crea immagini che esprimono un pensiero su quella realtà. La frattura dell’atmosfera da presepe che emana il piccolo centro cosentino produce sensazione di ‘disturbo’, esalta la vetustà del tessuto urbano del borgo, induce a riflettere sulle molteplici fratture sociali.
Una possibile chiosa a una mostra che plana su un centinaio di autori potrebbe essere la recente e pura arte estetica di Silvia Camporesi che, con il progetto La terza Venezia, esplora la possibilità di una terza identità della magnifica città lagunare, andando oltre quella reale e quella impregnata di assoluta finzione. La Venezia di Camporesi è reale perché i soggetti fotografati esistono davvero nel tessuto storico della città. Ed è anche irreale perché si sovrappone a una città fatta di sogno, leggenda e mistero.