L’arte delle antiche civiltà ha esercitato nel corso dei secoli un’enorme fascinazione sugli artisti, diventando spesso un modello a cui ambire o con cui confrontarsi. Eppure, quando rivolgiamo lo sguardo al passato, tendiamo a considerare meramente una piccola parte di esso. Per molto tempo, la cultura greco-romana ha monopolizzato l’interesse degli intellettuali e degli studiosi verso l’antichità; abbiamo dovuto attendere la soglia del Novecento affinché gli orizzonti di ricerca potessero ampliarsi, riconsiderando l’apporto di altre popolazioni.
Attorno a queste riflessioni verte la mostra “Etruschi del Novecento”, progetto espositivo presentato dal Mart di Rovereto e dalla Fondazione Rovati di Milano allo scopo di testimoniare l’influenza duratura esercitata dagli Etruschi sul pensiero artistico e sulla produzione materiale del XX secolo.
Quella etrusca è una civiltà senza tempo che, con la sua estetica arcaica e i suoi singolari materiali, ha rappresentato e rappresenta una fonte inesauribile di suggestioni per artisti, designer e creativi di ogni epoca. Nel corso del Novecento, scoperte archeologiche come quella dell’Apollo di Veio (1916) hanno contribuito a generare una vera e propria “febbre etrusca”: numerosi studi e pubblicazioni si sono concentrati sulla cultura e la produzione etrusca, scritti seguita da eventi epocali come la mostra di Palazzo Reale a Milano nel 1955 e il Progetto Etruschi del 1985, che hanno permesso a un pubblico sempre più vasto di avvicinarsi a questa civiltà perduta.
D’altronde, come affermato dall’archeologo D.H. Lawrence, uno dei massimi esperti di etruscologia, “degli Etruschi non sappiamo niente tranne che quello che abbiamo trovato nelle loro necropoli. Non resta perciò che andare alle tombe e ai musei che ne conservano i reperti”.
Il sorriso enigmatico dell’Apollo di Veio diviene un simbolo dell’arte etrusca, simile allo stile della Grecia Arcaica, ma anche ricca di peculiarità che la rendono unica. Le labbra accennano a una quieta serenità, sospesa tra il distacco, la gioia e l’assenza di impulsi fugaci, fissando in eterno un’espressione effimera e immutabile. Avvolta da un’aura misteriosa e perennemente in bilico tra arcaismo e naturalismo, la produzione artistica etrusca ha affascinato scultori come Arturo Martini, che ne interpreta il carattere sintetico ed espressivo, traducendo in chiave moderna la “quasi totale assenza di una ricerca anatomica attenta” (H.D. Lawrence, Etruscan Places, 1992).
Persino Pablo Picasso, grazie all’amicizia con Gino Severini, originario di Cortona e fine conoscitore della cultura etrusca, trovò nei buccheri e nelle ceramiche etrusche degli interessati spunti per la sua produzione di ceramiche. Picasso, lavorando con la ceramica a Vallauris, reinterpretò motivi animali e antropomorfi tipici dell’arte etrusca, dimostrando la versatilità e l’attualità di questo patrimonio antico. Come in precedenza era successo con le scoperte degli scavi di Pompei (1748) ed Ercolano (1738), le pitture tombali di Tarquinia, le urne funerarie di Volterra e la celebratissima Chimera d’Arezzo divennero vere e proprie tappe obbligatorie per il «Grand Tour» di molti artisti novecenteschi.
L’influenza etrusca non si limitò alle arti visive, ma si estese anche al mondo del fashion e delle arti applicate. Rimane memorabile la “Linea Etrusca” (1956) lanciata dalla casa d’alta moda Fernando Gattinoni, collezione di abiti che dona nuova vita allo stile delle donne etrusche, riprendendo texture e ornamenti dei vasi, delle pitture e dei gioielli antichi. Del resto l’oreficeria etrusca fu di ispirazione per l’ideazione di una serie di gioielli progettati e disegnati da artisti come Arnaldo Pomodoro, oggetti di design dedicati ad una nuova sperimentazione delle tecniche tradizionali, come la granulazione, osservate tramite le lenti degli antichi. Esperimenti perfettamente accompagnati dagli orecchini ideati da Fausto Melotti e dichiaratamente ispirati ai pettini etruschi.
La mostra, visitabile dal 7 dicembre 2024 fino al 16 marzo 2025, dedica un focus al design italiano che assorbì immediatamente i caratteri sintetici, a volte persino minimali, ed eleganti dell’estetica etrusca. Uno dei protagonisti di questa riscoperta fu Gio Ponti, che, quando assunse la direzione artistica della manifattura Richard Ginori, cominciò a frequentare assiduamente i musei archeologici di Firenze e Roma, traendo ispirazione dalle forme e dalle decorazioni dei vasi etruschi, come le ciste e gli asso, oltre che dalle sculture votive. Queste visite si tradussero presto in una serie di oggetti quotidiani che fondevano la moderna funzionalità con la bellezza arcaica di una cultura millenaria.
Il bucchero, particolare tipo di ceramica fatta al tornio, uniformemente nera tanto all’interno quanto all’esterno e lucidata sulla superficie, assunse un valore simbolico per il design moderno. Ponti seppe sfruttare le qualità plastiche di questo materiale per dare alla luce manufatti capaci di evocare l’essenzialità e la raffinatezza del popolo etrusco. Negli anni Cinquanta, il suo lavoro creò una vera e propria corrente, arricchita dalle ricerche di artisti come Guido Andlovitz, al tempo direttore della Società Ceramica Italiana di Laveno, e Carlo Alberto Rossi.
I materiali umili, le forme semplici e le espressioni criptiche dei soggetti furono il motore anche di una lunga serie di lavori di Arturo Martini, il quale produsse svariati esemplari in terracotta direttamente ispirata alla statuaria etrusca. D’altronde, Martini condivideva con gli Etruschi l’incredibile capacità di suscitare pensieri e sentimenti profondi attraverso corpi massicci, costruiti per incastro di volumi e privi di dettagli, ma dotati di sguardi e atmosfere sospese nel tempo. Alberto Giacometti, invece, rimase colpito dall’Ombra della Sera di Volterra, una figura slanciata e allungata, che ebbe grande impatto sulle sue celebri sculture filiformi. Mentre Massimo Campigli, stregato dalle urne funerarie conservate al Museo di Villa Giulia, incorporò nei suoi dipinti i volti enigmatici e le pose statiche delle figure etrusche, dando vita a composizioni che sembrano evocare un’epoca impossibile da collocare nel tempo.
Comprendiamo veramente la portata culturale del rinnovato amore verso l’etruscologia osservando La Chimera di Mario Schifano. Nel 1985, nell’anno degli Etruschi, Schifano produsse una maestosa opera pittorica dedicata alla Chimera di Arezzo, scultura bronzea rinvenuta nel Cinquecento e simbolo della maestria etrusca. In questo lavoro, performance e pittura si uniscono tramite una gestualità istintiva e immediata, che impresse sulla tela chimere leggere e dinamiche, quasi eteree. Lo stesso artista, prima di realizzare il lavoro, dichiarò: “Creerò una chimera. Una chimera autentica, come la fantasticavano gli Etruschi: un animale impossibile, fatto da dieci bestie diverse, metafora della superiorità della fantasia sulla realtà. Una chimera non si può raccontare, ma si può dipingere. Ed è quello che farò, sotto gli occhi del pubblico arrivato per assistere all’inaugurazione delle otto mostre celebrative dell’anno degli Etruschi”.
L’opera non solo omaggiò l’arte etrusca, ma dimostrò anche la capacità di questa cultura di dialogare con la modernità attraverso nuovi linguaggi visivi, fu un vero e proprio esperimento visuale permeato da un senso di vitalità che contraddistingue sia il maestro del Novecento italiano che le sculture e le pitture etrusche.
Persino Michelangelo Pistoletto entrò in dialogo con l’arte etrusca costruendo un confronto tra passato e presente tramite un espediente tanto semplice quanto geniale, ossia l’accostamento di una copia dell’Arringatore, raro esemplare di scultura in bronzo etrusco-romana, a uno specchio. Simbolicamente assimilabile alla figura dell’orante, questo personaggio, riflettendosi, invita il visitatore a riconsiderare l’eredità culturale degli Etruschi, rivalutandone l’impatto sul mondo contemporaneo. Come spiega lo stesso artista, il braccio disteso dell’Arringatore indica “la strada che porta al di là del muro su cui l’umana individualità si sta sfracellando”.
Tuttavia, l’azione più ardita fu quella di Marino Marini che, dal canto suo, arrivò a autodefinirsi “un etrusco moderno”, affermando esplicitamente il debito artistico e l’affinità verso questa antica civiltà.
Photo Credits Mart