C’è poco da ridere al Mambo. C’è semmai da chiedersi come facciano certi curatori a costruire una mostra sull’ironia lasciando a casa tutti gli artisti che hanno sempre lavorato con coerenza e serietà sul tema, mettendoci invece molti di quelli che l’ironia non sanno neanche dove stia di casa. Già, perché per capirci, fare una mostra sull’ironia nell’arte italiana lasciando fuori tutti gli artisti del Concettualismo ironico è come fare una mostra sul surrealismo senza gli artisti surrealisti, una mostra sul futurismo senza i futuristi, una mostra sul dadaismo lasciando fuori Duchamp.
La mostra Facile ironia. L’ironia nell’arte italiana tra XX e XXI secolo, a cura di Lorenzo Balbi e Caterina Molteni, aperta al Mambo di Bologna fino al 7 settembre 2025, è un esempio di scuola di come la storia recente dell’arte italiana andrebbe trattata con minor superficialità e maggior rigore storico e critico. Ora, se è esistito – ed è esistito – un movimento il cui nome era, appunto, Concettualismo ironico, come mai i curatori non inseriscono uno solo dei loro esponenti in una mostra basata appunto sull’assunto che “le potenzialità critiche dell’ironia da una parte e il suo potere anestetizzante dall’altra” siano due possibili chiavi attraverso cui leggere il lavoro di artisti di diverse generazioni “che hanno impiegato questo linguaggio per costruire la propria opera e di riflesso riflettere sulla società e sui suoi costumi”?

Per chi non lo sapesse, il Concettualismo ironico è stato un movimento, esploso con una mostra in Germania, a Mannheim, grazie al gallerista Angelo Falzone nel 1995 dal titolo “Italienischer Ironischer Konzeptualismus”, nella quale erano presenti diversi artisti italiani – i principali dei quali erano Corrado Bonomi, Dario Ghibaudo, Antonio Riello, Alessandra Galbiati, Francesco Garbelli, Antonella Mazzoni – i cui lavori, in risposta e reazione al clima iper-ideologico dell’imperante concettualismo “puro e duro” degli anni passati, e al ritorno alla pittura di marca espressionista della Transavanguardia da una parte, e di quella di ripresa dei canoni classici dell’Anacronismo dall’altra, riproponevano un diverso atteggiamento nella pratica artistica, più leggero, scanzonato, provocatorio, giocoso, mantenendo però un atteggiamento fortemente mentale, retaggio, appunto, della lezione concettuale.
Ora, sia chiaro: non siamo qua a fare il (facile) gioco del “chi c’è e chi manca” dalla mostra del Mambo, ma a ragionare su un fatto che dovrebbe essere ovvio, e invece ancora oggi in Italia spesso non lo è per nulla: ovvero il fatto che se si realizza una mostra che ha pretese di avere una sua coerenza storica, i canoni con cui la si cura dovrebbero essere, appunto, storicamente rigorosi.

Allo stesso modo in cui, nella mostra romana “Il tempo del futurismo”, si pretende di portare “l’onda lunga” del futurismo fino ad oggi, mettendoci dentro un po’ tutti, da Pino Pascali (che diavolo c’entrerà mai?) a Piero Dorazio a Lorenzo Marini (chi diavolo era costui?), e poi ci si “dimentica” di inserire l’unico movimento recente che al futurismo si è esplicitamente dichiarato (i Nuovi Futuristi appunto, nel quale figuravano artisti come Marco Lodola, Plumcake, Gianni Cella, Clara Bonfiglio e altri), anche nella mostra del Mambo si distorce la verità storica per lasciar fuori artisti che non hanno avuto, al tempo, un’adeguata “copertura” da parte del mercato, per privilegiare invece molti, troppi nomi “noti” e considerati importanti dal sistema “che conta” e dalle gallerie considerate “importanti” (ci sono tutti, alcuni decisamente tirati per i capelli pur di farceli stare, dall’ovvio Cattelan, ma con un’opera assai poco ironica come quella dei “piccioni imbalsamati”, a Pistoletto, a Lara Favaretto, a Roberto Cuoghi, a Diego Perrone, a Monica Bonvicini, fino ad Alberto Garutti e Vincenzo Agnetti, cioè alcuni tra gli artisti meno ironici che il sistema dell’arte abbia mai avuto la ventura di conoscere): anche se la loro poetica generale, per l’appunto, con l’ironia ha tutto sommato poco, o a volte pochissimo, a che fare (e davvero non basta la monumentale Mozzarella in carrozza di De Dominicis furbamente messa in apertura di mostra, a mitigare la mancanza di ironia del tutto…).

Il risultato? Una mostra poco, pochissimo ironica, che non solo lascia fuori appunto l’intera squadra del Concettualismo ironico, che in un momento “plumbeo” di concettualismo per nulla ironico riportava al centro della scena temi quali il gioco, la creatività, l’ironia, lo sberleffo; ma lascia fuori, fatalmente, anche tutti coloro che potrebbero essere considerati a buon diritto i loro nipotini, ovvero quegli artisti – ce ne sono moltissimi, oggi – i quali, crescendo appunto con la lezione dei loro ironici maestri, affrontano il reale con l’arma tutt’altro che spuntata della dissacrazione ironica.

Altroché i perlopiù pochissimo ironici e giocosi lavori (salvo eccezioni, spesso seriosi, noiosi e persino plumbei) che affastellano la mostra, attraversata da un’impostazione molto ideologica in certi suoi assunti di “critica della società”, ma pochissimo ludici e giocosi: qua mancava tutta l’ormai neanche più troppo nuova, ma evidentemente ancora snobbata dal sistema museale ufficiale, di artisti che sull’ironia hanno giocato e giocano con costanza e determinazione da qualche decennio (senza contare qualche precursore d’eccellenza come Luigi Serafini o Massimo Giacon); da Francesco De Molfetta a Giuseppe Veneziano, da Max Papeschi a tutta quella vastissima pattuglia di artisti neopop, street artist, meme-artist e digital artist che oggi, piaccia o no ai puristi del sistema, dilaga – e a volte persino imperversa – nel vastissimo sistema dell’arte “diffuso”, formato dal grande bacino del collezionismo medio-basso e dai social media, e che con un approccio ironico all’arte ha molto, molto più a che spartire che i molti artisti “impegnati” e “protetti” scelti dai curatori. Ultimo in ordine di tempo, e oggi non certo secondario, Giulio Alvigini, che in Italia è stato il primo a lavorare con il linguaggio dei meme, portandolo di diritto al centro del dibattito artistico italiano.

La verità è che di curatori che mettono insieme i nomi di artisti soliti “noti” e ben protetti dalle gallerie che contano, con qualche spruzzatina di artisti “maledetti” ripescati fuori tempo massimo come esempio di “outsider” d’altri tempi (chissà perché, il sistema riscopre sempre gli outsider post-mortem, mai quand’erano vivi e incazzati, e spesso poveri e isolati: Massimiliano Gioni docet, con la sua Biennale enciclopedica piena di “irregolari”, ma rigorosamente morti e sepolti, i vivi invece quasi tutti in carriera e con alle spalle ottimi sponsor); beh, di curatori così, va detto, ne abbiamo a bizzeffe: quello che manca, invece – eccome se ci manca! –, è non solo la corrosiva ironia, ma anche la coerenza storica e scientifica, di un curatore, ahimè scomparso da molti anni, come Maurizio Sciaccaluga, che sul gioco e sull’ironia aveva lavorato a lungo e (paradossalmente) con molta serietà, autore non a caso di mostre come la bellissima “Kids are us – i bambini siamo noi”, organizzata alla Galleria Civica di Trento nel 2003, quando era diretta da Fabio Cavallucci. Pazienza, facciamocene una ragione. Anzi: facciamoci su una bella risata, e chi s’è visto s’è visto.
in copertina: Davide Sgambaro, Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno, 2025.
Castigat ridendo Mortis de famas
Hai scritto con argomentazioni molto serie quello che ho pensato aggirandomi nella mostra che dell ‘ironia ha voluto dare un immagine molto pulitina e trendy . Insomma un ironia a senso unico con tante brave impegnate e serissime donne artiste che hanno lavorato negli anni 70 senza pensare alla giocosità . Per me ironia nell arte equivale a un pensiero un sorriso e spesso ho visto in questa mostra pensieri , pensieri antagonisti , ma se sorrisi se c erano spesso erano amari . E poi che c’è di ironico in de Chirico o in Donghi ? C’è profondità di pensiero e osservazione e grande pittura , amore per la storia e per la assonnata provincia romana Vabbè bisognerebbe avere un po’ di anni in più e approfondire senza fare regali a nessuno … but it’s not easy Saludos !
Grazie
aggiungo una piccola nota e segnalo una bellissima mostra “Das Spiel in der Kunst” del 1995 che si e’ svolta a Graz e Bolzano curata dalla Dottoressa Chiara Bertoli, alla quale hanno partecipato i nostri artisti Manzoni, Pascali, Boetti, Mondino, Parmiggiani, Paolini, Salvo, Pistoletto, Arienti, Bonomi, Cattelan, Fantin, Martegnani, Riello.
Se diventa una faccenda di amici sogno una contro- mostra su questo tema dell’ironia e il gioco, a breve con Serafini, Cella, Giacon, Bonomi, Plumcake, Dario Ghibaudo, Antonio Riello,Clara Bonfiglio e naturalmente tutti i notissimi che ci saranno comunque.
Ottima analisi ,complimenti
Grazie Alessandro per aver ricordato i Nuovi Futuristi, la memoria è corta. E grazie anche per aver parlato dell’amico Maurizio Sciaccaluga mai dimenticato. Speriamo, se mai si farà, che in una ricognizione degli anni ottanta venga ricordato anche il nostro lavoro dei Nuovi Futuristi, forse l’ultimo gruppo artistico italiano. A presto Dario Brevi