“Jimmy, i leoni possono correre più di noi Maasai, ma noi possiamo correre molto più a lungo e più lontano“
Queste parole, riprova dello iato che separa il nostro mondo sordo e liofilizzato dagli spazi cangianti dell’altrove, sono di Sabore, Maasai della Tanzania la cui bellezza statuaria, immortalata da Jimmy Nelson, si concede ai nostri occhi assieme alle altre decine di scatti sontuosi che il fotografo inglese ambienta, fino al 21 gennaio 2024, negli spazi di Palazzo Reale, appena al riparo dall’ornato verticale del Duomo di Milano. La prima personale di Nelson è esageratamente plurale e variopinta, e i colori delle popolazioni ch’egli ha vissuto, organizzati dalla coinvolgente curatela di Nicolas Ballario e Federica Crivellario, si manifestano potenti nella soffusa scena delle molte sale coinvolte, dove 65 degli scatti e delle fotografie più intense e iconiche del viaggiatore britannico attendono gli occhi degli altri.
Ecco il perché del titolo: Jimmy Nelson trasfigura la nostra idea di mondo, spalancandone le porte e gettando ponti, demolendo l’apparentemente inscalfibile cinta muraria che abbiamo eretto tra noi e l’Altro difforme, insolito, per comprendervi all’interno infinite storie di dominio, violenza, carneficina; tutt’al più, bene che oggi vada, miopia. Per il nostro usurato e caricaturale etnocentrismo, i cui spigoli schermano e recidono, quelle che Nelson ritrae – ora apparendo direttamente ed ora catturando l’irripetibile istante che rende la foto capolavoro – sono culture secondarie, il cui unico fine esistenziale sembra essere, per tanti, quello di generare un inesauribile bacino estetico-formale a cui attingere per arredare i nostri salotti. Quando, nell’Ottocento inoltrato, i primi grandi antropologi cominciarono a sfogliare le fitte pagine dell’umano, incontrando tanti dei popoli di Nelson, strumenti come la fotografia erano, nel migliore dei casi, appena un miraggio che nemmeno le opulente aule dei club londinesi o francesi ancora vantavano. L’irruzione della tecnica fotografica è stata allora decisiva per l’etnografia successiva, e ha prima dischiuso e poi disvelato, in tutta la sua fervente polisemia, quella che chiamiamo umanità, irriducibile alle nostre gerarchie, come osserva già Claude Lévi-Strauss, abituato a saltare recinti:
La nozione di umanità, che include, senza distinzione di razza o di civiltà, tutte le forme della specie umana, è di apparizione assai tardiva e di espansione limitata. Proprio là dove sembra aver raggiunto il suo sviluppo piú elevato, non è affatto certo – come prova la storia recente – che sia stabilita al riparo da equivoci o da regressioni.
“Le ultime sentinelle si ergono salde sul loro patrimonio culturale”, chiosa dunque un pannello didascalico, ma quel patrimonio, che esiste nella minaccia di chi vorrebbe appropriarsene o cancellarlo, rischia di sbiadirsi irrimediabilmente, ed allora a gridare forte devono essere i suoi colori. Non c’è spazio per l’oggettivazione: i volti che prendono la scena a Palazzo Reale, mai sottomessi all’impegno di apparire o tradursi, vivono a modo loro, nel solo o nel più congruo conoscano e che abbiano il diritto di preservare e perpetuare attraverso la difesa di saperi e conoscenze tecniche e materiali capaci di insegnare che il rapporto con l’ambiente e le risorse ha una sua educazione, quasi prelogica, da nuovamente interiorizzare, da risvegliare per illuminare le capacità individuali e le possibilità di costruzione sociale che ormai, annoiati, rintracciamo nella storia e nell’ammirevole saggistica antropologica.
In fin dei conti, è questo ciò che oggi le nostre pompose prolusioni accordano al patrimonio culturale, invece El Dorado reificato e consegnato al consumo take away, che impone all’abitare dei crismi spersonalizzanti e distanti dalle fisiologie geografiche, non richiesti e talvolta rifuggiti con dolore; come quando, ad esempio, le armi irrompano fra i Karo etiopi venendo scambiate con bestiame per assurgere, senza alternative, a status symbol di mascolinità e potere, salvo rappresentare la certezza dell’auto-distruzione. “Sto imparando dai popoli indigeni cosa significhi essere radicati”, osserva un nuovo pannello, ed è chiaro, quasi scorbuticamente, come il termine non ci sia più familiare, nella stessa psicotica frenesia che ammanta d’urbano il Palazzo Reale, lì nel cuore della capitale economica d’Italia.
Ma le comunità che Jimmy Nelson incontra e abita, svegliandosi coi loro paesaggi e i loro odori, seguendo i loro passi, impongono, all’attenzione di chi pretende di ignorarne il diritto ad esistere nei modi che ritengano più congrui delle criticità che sono di ordine territoriale e quindi sociale ed ecologico, “occidentale” pure, dove spazi indigeni diventano d’altri lontani e ignari di tanta complessità, fra le cui mani sfiorisce. Le donne, i bambini, gli uomini e gli altri animali di Nelson, che si fanno strada fra composizioni, ritratti, infiniti paesaggi e irripetibili momenti insegnano che c’è un dove, là fuori, dove i nostri tempi e ritmi non solo non sono gli unici possibili, ma si rivelano persino iniqui già solo rapportati ai limiti di sopportazione degli spazi che abitiamo, erosi e vilipesi senza sosta o ragione altra se non quella divorare per il solo poterlo fare. Gli scheletri nell’armadio della civiltà occidentale, più carnali che mai, danzano, a suon di luce, in un profluvio di colori, occhi e gesti, e attendono solo che il tuo sguardo li abbracci.
Non è dato di percepire una fine del percorso: dopo l’ultima immagine ci renderemo conto che gli scatti di Nelson raccontino l’uomo, lui compreso, ben oltre le mura delle sedi del potere e in tutte le molteplici sfaccettature che il pianeta ci concede; come, soprattutto, agli occhi esigenti della nostra educazione sociale emerga la grandezza del professionista, vero e proprio genio del fotoreportage disposto e abile a negarsi per affermare il diverso, per gridare al mondo il molteplice dell’umanità.
Crediti Fotografici: Nicolò Atzori