“Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. […] Avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata”. Sono le parole che Oriana Fallaci scrisse nel 1975 in uno dei suoi libri più noti: Lettera a un bambino mai nato.
Ed è proprio la figura di Oriana Fallaci, non solo celebre giornalista e scrittrice ma anche potente esempio di donna libera, ad aver ispirato le curatrici Maria Vittoria Baravelli e Annamaria Maggi, alla realizzazione della mostra ESSERE DONNA. Il corpo come strumento di creazione e atto di ribellione. Inaugurata mercoledì 5 marzo presso la Galleria Fumagalli, l’esposizione presenta opere di Marina Abramović, Sang A Han, Annette Messager, Shirin Neshat e Gina Pane.

Foto Guido Rizzuti Courtesy Galleria Fumagalli
Fino al 30 maggio 2025, la galleria ospita una delle prime collettive presentate nello spazio dopo tanto tempo. L’esposizione si apre con due oggetti appartenuti a Oriana Fallaci, l’elmetto con cui andò in Vietnam e il quaderno originale che utilizzò per prendere appunti per Lettera a un bambino mai nato. Nello spazio più grande di Fumagalli sono in dialogo le opere di artiste provenienti da luoghi e periodi diversi che raccontano, nel cuore della metropoli milanese, modi differenti d’essere donna. Non esiste una sola verità, un modo univoco di esprimere la femminilità ma storie diverse, anche contraddittorie in cui nessuna scelta di vita ha più valore delle altre.
Ed è proprio partendo dalla ribellione del corpo che le singole artiste ne rivendicano l’appartenenza e la libertà d’espressione. È una formula rivoluzionaria quella dello scardinare l’immaginario comune del corpo femminile, etichettato come piacente, sempre pronto ad essere desiderabile e utilizzare questo stesso corpo come atto creativo, contro lo stigma che gli è stato affibbiato da altri.

Tutte le artiste in mostra infatti fanno della lotta continua contro le convenzioni la loro battaglia. Le opere di Marina Abramović, Sang A Han, Annette Messager, Shirin Neshat e Gina Pane, raccontano le storie delle artiste che diventano anche quelle di tutte noi, facendone megafono politico, reclamando e pretendendo libertà sul proprio corpo e sulla propria persona.
La celebre Marina Abramović (Belgrado, 1946), probabilmente l’artista più conosciuta tra quelle esposte, nata in Serbia ma naturalizzata statunitense, è tra le figure più dirompenti della performance art. Il corpo è sempre stato un potentissimo mezzo d’espressione fin dai suoi primi lavori, in cui portandolo allo stremo del dolore fisico, gli ha fatto sopportare atti di violenza inflitti da altri o da sé stessa. “Perché dipingere? Perché limitarmi a due dimensioni, quando potevo fare arte con il fuoco, l’acqua, il corpo umano? Con qualunque cosa!” scrive l’Abramović nel 2016 nell’autobiografia Walk Through Walls (Attraversare i muri nella sua traduzione italiana), in cui l’artista esplora il suo percorso creativo e la sua evoluzione nell’arte performativa.

Esposta alla galleria Fumagalli troviamo una fotografia della performance Thomas Lips (Lips of Thomas) che l’artista fece nel 1975, dedicata all’omonimo signore svizzero. La stessa artista afferma che la performance sarebbe dovuta essere “una dimostrazione, una supplica, un gioco e un’offerta a Lips”, si trattò invece di una delle sue opere più violente. Marina seduta a un tavolo, nuda, mangia un chilo di miele e beve un litro di vino rosso, per poi rompere il calice con la mano. Una fotografia appesa al muro ritrae Thomas Lips, attorno alla quale Abramović disegna un pentacolo capovolto.
Da questo momento inizia il vero e proprio atto violento. L’artista prende una lametta e si incide un pentacolo sulla pancia, al cui centro lascia l’ombelico. Si inginocchia e si flagella con una frusta per poi distendersi su dei blocchi di ghiaccio disposti a forma di croce: un vero e proprio inferno.
Valie Export, che stava assistendo alla messa in scena, non riesce a continuare a guardare senza fare niente e dopo mezz’ora interrompe la performance e con l’aiuto di alcuni presenti porta Abramović in ospedale. In questa forma di masochismo ingiustificato, molto difficile da comprendere, Marina Abramović attacca il suo corpo e le sue radici. Il vino rosso è infatti un rimando all’eucarestia, mentre la stella al comunismo. La performance si ripeterà altre due volte, nel 1993 e l’ultima nel 2005. La fotografia esposta alla galleria Fumagalli ritrae l’incisione che l’artista si fece sul corpo, un primo piano sulla stella che non include il volto dell’artista, come a escluderne la sofferenza che caratterizzò la performance. L’impressione è che l’opera abbia come scopo quello documentativo.

Anche l’artista francese Gina Pane (Biarritz, 1939 – Parigi, 1990) presenta opere in cui il sangue e l’autolesionismo diventano atti d’indagine del proprio corpo. Mi riferisco a Cicatrice de l’action, un dittico fotografico del 1974-1975 e Action Mélancolique 2x2x2 del ’74. Il taglio, la lesione, vengono visti da Gina Pane come atti di apertura e di amore, come estremi tentativi di introspezione e spiritualità.
Pioniera dell’arte femminista, esattamente come l’Abramović Pane è famosa per le sue performance in cui si sottoponeva a dolore fisico. Cresciuta in Italia, si è trasferita a Parigi nel 1960 per frequentare l’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Nelle sue opere il corpo è il centro del suo lavoro ma questo non significa che parli solo di sé, anzi tutto il contrario. Esattamente come le altre artiste esposte alla galleria Fumagalli, per Gina Pane il corpo è luogo di indagini sociali, biologiche e spirituali e non si riduce al racconto della mera persona. Il collage Action Mélancolique 2x2x2 è un’opera affascinante e variegata. Composta da frasi, disegni e fotografie indaga la relazione con l’altro, rappresentato dalla schiena nuda di una ragazza fotografata di spalle. Tra le immagini una ritrae l’artista intenta a ferirsi vicino all’orecchio, alludendo al famoso gesto di Vincent Van Gogh.
Sang A Han (Seoul, 1987) artista sudcoreana che ha da poco concluso una personale nella medesima galleria, reinterpreta in chiave contemporanea la tecnica orientale della pittura a inchiostro, insieme all’eredità del cucito e del ricamo, prassi tradizionalmente legate al mondo del lavoro domestico femminile. Interessante è come l’artista scelga di lavorare attraverso queste tecniche modificandone il significato. La tessitura adesso diventa una scelta artistica e non più un’imposizione maschile. Le sue sculture in tessuto rimandano tra le altre cose anche alla naturalità del corpo femminile e alla maternità. Un esempio è l’opera Void Pagoda 14 del 2023, in cui una donna estremamente graziosa, si addormenta abbracciata a una stella.
L’esplorazione della femminilità è da sempre perseguita anche da Annette Messager (Berck, Francia, 1943) che in mostra presenta le due opere Mes Voeux cercle del 1990 e Mes Voeux (en croix) del 1997. In entrambi i casi l’artista combina fotografie di varie parti del corpo evocando una pluralità di identità fisiche, psicologiche e sessuali. La sovrapposizione dei dettagli delle varie foto, crea un insieme di relazioni ed esperienze diverse in cui non è ammessa censura. Cresciuta in un ambiente in cui i modelli maschili erano quelli dominanti, non si è fatta influenzare ma ha deciso di creare un’arte partendo dalla propria esperienza. Non è un caso infatti che i suoi lavori siano un accumulo di cose, essendo Messager prima che artista anche collezionista.

“La rabbia nutre la barbarie, una forma di rabbia conduce ad un’altra forma di rabbia. […] La risposta può essere la creazione di dialoghi su come possiamo prevenire l’ira immotivata che causa tanta sofferenza”. Sono le parole di Shirin Neshat (Qazvin, Iran, 1957) durante un’intervista a Exibart del 2015. Fotografa e regista, Neshat decide di intraprendere la strada dell’artista dopo essere tornata in Iran nel 1990, che aveva lasciato per frequentare l’università negli Stati Uniti. La terra che trova non è la stessa in cui era cresciuta. Con la rivoluzione del 1978-1979 erano state emanate leggi restrittive che limitavano la libertà delle donne. L’artista decide così di documentare la realtà all’interno dei suoi lavori. Esposte alla galleria vi sono alcune opere della serie Women of Allah, tutte realizzate nel 1994. Inizialmente molto controverse, Shirin Neshat spiega che molti occidentali credevano che le parole sulle fotografie fossero versetti coranici. La lingua in realtà non è l’arabo ma il farsi, l’antico persiano e le parole compongono sempre frasi poetiche. Tra le opere esposte ve n’è una ad esempio, che ritrae una donna intenta ad abbracciare un bambino, probabilmente suo figlio, avvolgendolo nel velo. Alle loro spalle, appoggiato al muro, c’è un fucile. Sul velo della donna c’è una scritta la cui traduzione è “Io muoio di te e tu sei la mia vita.”
È incredibile pensare che le opere di artiste così lontane sia a livello geografico che temporale, si sposino perfettamente all’interno degli spazi della galleria, non solo dal punto di vista estetico ma anche concettuale. Come se avessero collaborato tra loro, il dialogo che si instaura è estremamente interessante. Un coro di voci in cui nessuna sovrasta l’altra ma insieme concorrono al raggiungimento di un obiettivo comune, quello della libertà del corpo femminile.