Il primo album dei Pink Floyd compie 57 anni

Londra, 1967. Le vie della città erano animate da un’energia vibrante e creativa. Nell’aria si respirava un cambiamento, una rivoluzione culturale che stava iniziando a prendere piede. In questo scenario, quattro giovani musicisti poco più che ventenni si ritrovarono a varcare le porte degli iconici Abbey Road Studios. Erano i Pink Floyd: Roger Waters, Nick Mason, Richard Wright e il carismatico Syd Barrett.

Era una fredda mattina di febbraio quando i quattro ragazzi entrarono per la prima volta negli studi. Il vento soffiava forte, ma all’interno del leggendario edificio regnava un’atmosfera di quieta eccitazione. Le pareti delle sale di registrazione sembravano trasudare storia e creatività, avendo ospitato i Beatles e altri grandi della musica. Qui, sotto la guida esperta di Norman Smith, un veterano che aveva lavorato con i fab four, i Pink Floyd erano pronti a dare vita al loro debutto. Norman li accolse con un sorriso amichevole, ma il suo sguardo tradiva una certa apprensione. Aveva sentito parlare delle idee stravaganti di Syd Barrett e si chiedeva come avrebbe gestito quella giovane mente ribelle. “Benvenuti agli Abbey Road Studios”, disse Smith, stringendo la mano a ciascun membro della band. “Sarà un viaggio interessante“.

La sala di controllo era un santuario di apparecchiature all’avanguardia: registratori a nastro, mixer e una pletora di strumenti elettronici pronti per essere esplorati. Syd Barrett, con il suo sguardo penetrante e il sorriso enigmatico, si avvicinò al microfono. “Interstellar Overdrive” annunciò, e subito iniziò a suonare. Le note fluivano dalla sua chitarra come una cascata di suoni spaziali, una sinfonia di distorsioni e feedback che ipnotizzava tutti nella stanza.

Roger Waters e Nick Mason si unirono, creando una base ritmica solida e dinamica. Richard Wright, immerso tra i suoi tastiere, aggiungeva strati di suoni eterei, creando un paesaggio sonoro che evocava immagini di galassie lontane e mondi inesplorati. Norman Smith osservava con ammirazione e un pizzico di preoccupazione, cercando di capire come catturare quella magia su nastro.

I Pink Floyd negli Abbey Road Studios nel 1967

Le sessioni si susseguirono, giorno dopo giorno, con la band che spingeva continuamente i limiti della creatività. In un momento di ispirazione, Barrett suggerì di registrare al contrario i nastri per creare effetti di eco surreali. L’idea sembrava folle, ma quando il suono distorto riempì la stanza, tutti capirono che stavano creando qualcosa di straordinario.

Un giorno, mentre lavoravano su “Astronomy Domine”, Barrett iniziò a cantare con una voce distorta che sembrava provenire dallo spazio profondo. Le chitarre riverberate e le tastiere atmosferiche si mescolavano in un crescendo di suoni cosmici. Roger Waters guardò Barrett, vedendo in lui non solo un amico, ma un genio visionario che stava portando la musica in territori inesplorati.

Le dinamiche all’interno del gruppo erano complesse. Barrett, con la sua mente eccentrica e talvolta instabile, era sia il cuore creativo che una fonte di tensione. Richard Wright, con il suo temperamento calmo e riflessivo, spesso faceva da mediatore, mentre Nick Mason e Roger Waters cercavano di mantenere la coesione della band. Le lunghe ore di registrazione e l’intensità delle sessioni iniziavano a pesare, ma la passione per la musica li teneva uniti.

La copertina

Per la copertina venne scelto Vic Singh, un giovane fotografo noto per le sue tecniche innovative, capace di catturare l’essenza psichedelica della band. Quando i Pink Floyd arrivarono nel suo studio, furono accolti da un’atmosfera rilassata e informale. Il piccolo studio era pieno di attrezzature fotografiche, luci e fondali di vari colori, ma al centro della stanza c’era l’oggetto che avrebbe fatto la differenza: una lente prismatica.

“Ho un’idea” disse Singh con un sorriso, indicando la lente. “Questa lente può creare un effetto caleidoscopico. Rifletterà perfettamente la vostra musica, me l’ha data George Harrison in persona”. Syd Barrett, sempre curioso e aperto alle sperimentazioni, fu subito affascinato dall’idea. “Proviamola” disse, mentre il resto della band annuiva con entusiasmo.

La sessione iniziò con i membri della band disposti in un gruppo stretto. Singh regolò le luci per creare un’illuminazione morbida ma intensa, capace di accentuare i contrasti e i dettagli. Poi montò la lente prismatica davanti all’obiettivo della fotocamera. Quando guardò attraverso il mirino, vide le immagini multiple e sovrapposte dei membri della band, un riflesso frammentato che sembrava provenire direttamente da un sogno psichedelico.

“Cercate di rimanere fermi” suggerì Singh. “Voglio catturare ogni dettaglio delle vostre espressioni”. I membri della band si scambiarono sguardi divertiti ma si concentrarono, sapendo che quel momento sarebbe stato immortalato per sempre. Singh iniziò a scattare, catturando una serie di immagini in rapida successione. Ogni scatto era un’esplosione di colori e forme, con i volti della band che si fondevano e si moltiplicavano in un caleidoscopio visivo.

Dopo diversi tentativi, Singh trovò l’angolazione perfetta. Lo scatto finale catturava esattamente ciò che aveva immaginato: un’immagine distorta e colorata della band, che rifletteva la complessità e l’innovazione della loro musica. Syd Barrett, osservando il risultato, sorrise. “È fantastico” disse, “Riflette esattamente ciò che siamo”.

Finalmente, dopo mesi di lavoro incessante, “The Piper at the Gates of Dawn” era pronto. L’album era una sinfonia di suoni e visioni, un viaggio attraverso paesaggi mentali che nessuno aveva mai esplorato prima. La band ascoltò il prodotto finito con un misto di stupore e orgoglio. Syd Barrett, seduto in un angolo con il suo enigmatico sorriso, sembrava già lontano, come se la sua mente fosse in un’altra galassia.

Il 5 agosto 1967, l’album fu pubblicato. Il mondo non sarebbe più stato lo stesso. I Pink Floyd avevano aperto una porta verso l’ignoto, invitando tutti a seguirli in quel viaggio psichedelico. E così iniziò la leggenda, con quattro giovani musicisti che, spinti da una visione condivisa e da una passione inarrestabile, avevano creato un capolavoro destinato a durare per sempre.

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