“Un seme è un viaggio dall’est al nord. Un seme è un osso da decifrare. È un solido che dà sostentamento. È la genesi di un albero, di una foresta, di una storia, di una narrazione. Un seme è l’origine di una continuità. Racchiude memorie, segreti e misteri. È essenziale, fragile ed eterno: il fondamento del passato e del futuro. Rigenera e guarisce, si perde per poi rivelarsi”
Queste sono le parole di Saodat Ismailova, la cui personale A Seed Under Our Tongue, presentata a Pirelli HangarBicocca ha aperto al pubblico il 12 settembre 2024. La mostra dell’artista uzbeka sarà visitabile fino al 12 gennaio 2025, segnando la prima antologica in Italia a lei dedicata. Con lavori inediti e opere storiche, l’esposizione, curata da Roberta Tenconi, comprende opere dell’artista realizzate con medium diversi, come film, sculture e installazioni.
Saodat Ismailova (Tashkent, Uzbekistan, 1981) è conosciuta principalmente come filmaker ma in realtà le sue opere spaziano tra più pratiche artistiche. In mostra a Pirelli Hangar Bicocca, sono infatti esposte anche sei sculture oltre a diversi film ed alcune installazioni polimateriche. L’artista ha sviluppato la passione per il cinema già in tenera età, ispirata dal lavoro del padre, direttore della fotografia e da quello della nonna, una storyteller.
Nel 2002 dopo aver studiato cinema all’Istituto statale di arte e cultura dell’Uzbekistan, si trasferisce a Treviso come ospite della residenza artistica di Fabrica, centro di ricerca sulla comunicazione. Ismailova ha da sempre lavorato per sviluppare e promuovere il cinema dell’Asia centrale, sia in Uzbekistan che in Europa, ponendo particolare attenzione alle pratiche culturali e alle storie delle donne del proprio paese.
Di particolare rilievo è sicuramente la sua partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2013, in cui si è fatta conoscere a livello internazionale, come parte del Padiglione dell’Asia Centrale, con la sua videoinstallazione Zukhra.
La scelta di A Seed Under Our Tongue come titolo della personale milanese, deriva da un racconto diffuso in Asia centrale che narra di un uomo, Arslanbob, che custodì un seme di dattero sotto la lingua, elemento associato alla parola e alla narrazione. Dopo un lungo viaggio, lo donò a un’altra persona, Akhmad Yasawi, che lo avrebbe piantato dando origine alla foresta di noci di Arslanbob in Kirghizistan.
Ed è proprio una piccola scultura in oro, il cui titolo porta lo stesso nome della mostra, a rappresentare la forma di un seme di dattero. Posta davanti a uno dei grandi schermi nell’Hangar, l’opera The Seed Under Our Tounge del 2024, rappresenta la responsabilità individuale verso l’eredità culturale e spirituale di fronte alle sfide del tempo e della società. Questo perchè nella maggior parte delle interpretazioni iconografiche, il seme è l’origine e il potenziale per la crescita ma in questa storia assume un significato ancora più profondo. Il seme di dattero infatti, diventando una noce, mette in luce la natura contraddittoria di qualsiasi forma di trasmissione.
Il buio ambiente che circonda le opere pone lo spettatore all’interno di una realtà totalmente nuova, come se lo spazio industriale dell’Hangar cedesse il posto a una dimensione diversa, carica di misticismo e spiritualità. I lavori di Ismailova si focalizzano infatti sul concetto di trasmissione di conoscenze e di storie, ma anche di ricordi o paesaggi. L’artista, specialmente con i suoi film, evoca narrazioni, epoche e contesti sociali diversi.
La mostra si apre con l’opera Stains of Oxus che si staglia imponente di fronte allo spettatore, quasi a bloccargli il cammino obbligandolo ad osservarla. Si tratta di un video a tre canali realizzato nel 2016 e che testimonia l’interesse dell’artista per il racconto orale. L’opera raccoglie i sogni degli abitanti dei villaggi lungo il corso del fiume Amu Darya, dove la deviazione delle acque, in epoca sovietica, ha causato l’inaridimento del territorio con un forte impatto sull’economia locale.
Il film segue il corso del fiume dalla sorgente sulle montagne fino alle rive aride del deserto. Stains of Oxus sviluppa una profonda critica verso la malgestione dell’acqua nella regione e lo fa attraverso i ricordi degli anziani della zona ma anche di adulti e bambini che hanno vissuto in prima persona le conseguenze della deviazione. L’opera, con uno sguardo più ampio, problematizza le conseguenze dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Questo progetto è l’esempio di come un singolo caso raccontato coralmente, apra gli occhi del pubblico verso le condizioni ambientali di una realtà più grande.
Un altro lavoro di grande rilievo presente in mostra è certamente As We Fade, del 2024. Costituita da 24 sottili pannelli di seta bianca sospesi, sui quali scorrono immagini in movimento. É impossibile non trovare una similitudine tra quest’opera e Veiling di Bill Viola, realizzata nel 1995. La composizione dei pannelli nell’opera di Ismailova, ricorda una sequenza di schermi sui quali si sviluppa una proiezione cinematografica.
Le immagini proiettate includono materiali d’archivio di cronaca da fonte ignota risalenti al 1929, che rappresentano abitanti e pellegrini della montagna Sulaiman-Too in Kirghizistan, ai quali si alternano nuovi filmati girati dall’artista sul monte, il luogo più venerato dell’Asia centrale. Nonostante la sovrapposizione di più strati di tessuto, grazie alla particolare sottigliezza del materiale quasi trasparente, l’immagine trapela da un telo all’altro, fino alla fine della sequenza, dissolvendosi progressivamente. La graduale scomparsa dell’immagine, simboleggia la lenta ma costante perdita di memoria nei confronti della propria storia e tradizioni. Interessante è come la metericità di quest’opera non scompaia, nonostante si tratti di una proiezione video. La scelta di un materiale come la seta, sottilinea l’importanza della texture del supporto utilizzato in cui la trama della stoffa, rimanda all’intreccio e ai fili di una narrazione.
Come in ogni mostra all’Hangar, anche in questo caso le scelte curatoriali sono estremamente puntuali. In Arslanbob, ad esempio, una delle ultime videoinstallazioni esposte, possiamo vedere alcune sedute la cui forma e fantasia ricorda quelle poste davanti allo schermo di proiezione del film. Questa scelta, semplice ma efficace, permette a chi osserva di essere ancora più coinvolto, entrando nella narrazione, come se la proiezione si estendesse oltre lo schermo. Inoltre, la disposizione delle opere segue simbolicamente i due fiumi princiapli dell’Asia centrale, l’Amu Darya e il Syr Darya, percorrendo l’idea di circolarità e ciclicità, insite nel concetto stesso di trasmissione, portato avanti nella ricerca artistica di Saodat Ismailova.