“Sono cinque o sei anni che non fotografo gli uomini.” (Mario Giacomelli)
Rifugiatosi nel buen retiro di una cascina sulle natie colline senigalliesi, il fotografo decide di usare manichini (con figure sia umane che animali) come personale forma di protesta contro le ingiustizie e il predominio umano sul mondo.
La retrospettiva organizzata dal MUFOCO, Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, con la curatela di Katiuscia Biondi, si concentra sul progetto “Questo ricordo lo vorrei raccontare”, immediatamente antecedente alla morte del fotografo avvenuta nel novembre del 2000 all’età di 75 anni.
In mostra, sino al 19 maggio, ci sono gli scatti in bianco e nero (insieme a una moltitudine di provini e test) di questo fotografo vocato alla sperimentazione. Giacomelli, infatti, in questa serie tematica, realizza fotografie di scena, dimostrando una eccezionale contemporaneità stilistica e creativa.
“Preferisco questo mondo falso, perché quello vero non mi si addice”, aggiunge l’artista, rovesciando così la percezione per la quale il vero mondo è quello (falso) da lui ritratto. La rappresentazione su scena è priva di ogni orpello: le fotografie di Mario Giacomelli sono fatte di nudità artistica, di voyeurismo ribaltato su noi osservatori che appoggiamo cuore e mente su queste alchimie di vera vita vissuta.
Centro cruciale di questo progetto è la cascina del fotografo immersa nelle colline di Sant’Angelo di Senigallia: la ‘realtà’ che l’artista ricostruisce è fatta di stanze vuote e semidiroccate, di cani in pelouche, piccioni di plastica, lenzuola imperfette, finestre dalle quali spuntano le teste di un finto prete e di una finta giovane donna, alberi (veri), arbusti e sentieri di campagna che raccontano di distanza e voluta solitudine rispetto al fastidioso brusio umano e urbano.
Quattrocento provini fotografici mostrano la vivacissima vena artistica del fotografo marchigiano che sembra irrequieto nel costruire il set fotografico, spostare, scomporre e ricomporre l’ordine di costruzione scenico, inserendo a volte, in maniera leggera, riverente, trasgressiva, la propria figura matura e terrigna.
Sessantasei fotografie ritenute compiute allargano questo legame iconografico continuamente intercorrente degli elementi principali di Mario Giacomelli. Ogni elemento racconta di un vissuto profondo e caratterizzante l’interiorità del fotografo: spicca il lenzuolo stropicciato che ricorda l’ospizio in cui lavorava la madre e che spesso si incaglia nei venti collinari; spiccano i propri nudi, assolutamente antiestetici ed antierotici, che rimandano con forza all’essenza del linguaggio del fotografo, improntato sull’assenza di ogni simulazione, proprio perché le ricostruzioni fotografiche di Mario Giacomelli sono più vere della realtà.