Iudice, quelle spiagge metafora di un tempo sospeso: “La vacanza? Una frattura dall’ordinarietà del quotidiano”

Che indaghi la segreta intimità del corpo di una ragazza intenta a prendere il sole, o che si concentri sulla consistenza profonda, indistinta e quasi minacciosa del mare che si perde in lontananza, finendo per diventare quasi un tutt’uno con il cielo, oltre le dune di sabbia delle spiagge della sua terra, la Sicilia. O, ancora, che rappresenti una marina brulla, battuta dal vento, sulla quale i bagnanti, uomini e donne e intere famiglie con i loro ombrelloni a righe che punteggiano un po’ disordinatamente, a piccoli gruppi spontanei, a chiazze, il chiarore quasi diafano della sabbia, inframmezzato dalle ombre dei cespugli mossi dal vento di scirocco di un soleggiato e caldo pomeriggio siciliano; ebbene, che rappresenti questo, o i volti stanchi e attoniti di gruppi di migranti giunti, dopo giorni e giorni di navigazione, a quella terraferma sulla quale speravano di iniziare una nuova esistenza meno grama di quella che si sono lasciati alle spalle, Giovanni Iudice, gelese doc, oggi considerato uno dei massimi esponenti del realismo pittorico italiano, rimane sempre fedele a questo suo linguaggio.

Una forma di realismo unico, inconfondibile, sperimentato negli anni in centinaia e centinaia di disegni e di dipinti, fuori dal tempo e fuori da ogni maniera o moda o leziosaggine – un realismo denso, aspro e seducente allo stesso tempo, fatto di pennellate decise, che in pochi, sapienti tocchi sa dipingere la realtà così come la vediamo, non filtrata dall’occhio meccanico della macchina o del telefonino, ma come se si creasse lì, di fronte ai nostri occhi, sostanza atavica ma sempre mutevole e baluginante di luci, di riflessi, di impercettibili movimenti del pennello sulla tavolozza, così carica di umanità, di pazienza e di empatia per ciò che rappresenta, fosse pure uno spuntone di roccia come il corpo di una donna o di un bambino su una spiaggia. Il suo realismo è lì per dirci le cose come sono e come il nostro occhio le vede, insieme ferme, antiche, immutabili eppure sempre fluide, cangianti, cariche di armonia ma anche di calore, di sofferenza, di fatica, in breve di umanità.

Di queste sue spiagge, di queste marine, di queste sue visioni, quasi sempre estive e soleggiate, così cariche di storie, di vita e di umanità, Giovanni Iudice ci racconta in questa intervista sotto il sole d’agosto.

Ci racconti come è nata l’idea di dipingere le spiagge?

Fin da quando ero ragazzino ho sempre disegnato. Siccome sono nato e ho vissuto a Gela, già verso i 12, 13 anni ho cominciato a mettermi con il cavalletto a dipingere en plein air. Amavo molto quei paesaggi, che erano quelli che vedevo fin da quando ero piccolissimo, dalla luce arsa, dorata. Mi sembrava che fossero insieme assolutamente realistici e che in qualche modo appartenessero a una realtà immaginata, un po’ sognante. Più avanti, ricollegherò quelle mie visioni a certi paesaggi che il cinema avrebbe reso famosi, come quelli di certe pellicole neorealiste, tutte giocate sulla poeticità del bianco e nero…

Pensi ad esempio al cinema di Antonioni, coi suoi paesaggi astratti, quasi rarefatti, o a quello di Pasolini, da Accattone in avanti?

Esattamente: il paesaggio lunare, arso, che fa sfondo ad esempio al Vangelo Secondo Matteo è uno dei miei modelli preferiti, è quell’atmosfera che pur essendo assolutamente reale (il film è stato girato a Matera, ndr) è anche fortemente simbolico, emozionale, un paesaggio in cui si respira l’emozione e il dramma della crocefissione.

E dopo quelle prime prove ancora quasi infantili, quando sei tornato a dipingere le spiagge?

È stato quando avevo 22 anni, nel 1992, le spiagge hanno cominciato ad assumere per me un significato che andava oltre la mera rappresentazione del reale, diventavano dei simboli di una realtà trasfigurata, lì ho cominciato ad applicare il mio stile, che io ritengo sì realista, ma figlio anche di un’idea metafisica della realtà, a ciò che io appunto vedevo ogni giorno nel mio paese, Gela: le spiagge appunto, brulicanti di vita, di persone, insomma di umanità.

Cosa ti affascinava esattamente delle spiagge?

Non è facile spiegarlo, erano come un momento in cui coglievo l’umanità in un momento di sospensione dalla realtà del quotidiano, dalle loro faccende abituali. Tutte quelle persone per me erano parte integrante del paesaggio, infatti non mi sono mai concentrato solo sulla corporeità dei bagnanti, ma in generale sul paesaggio, sull’atmosfera che riuscivo a cogliere nell’interazione che si crea tra il territorio e l’umanità che lo abita…

Però, quando dipingi le persone, hai sempre un taglio fortemente realista, non edulcori mai la fisicità dei tuoi personaggi.

No, infatti: per me rimanere fedele al dato di realtà è fondamentale. Quindi non cerco mai di rappresentare le persone come dei corpi o delle bellezze idealizzate, ma sempre e solo come persone reali, in carne ed ossa: se hanno la cellulite, dipingo la cellulite, se sono grasse o basse o alte, io le dipingo così come le vedo.

Da cosa parti oggi per dipingerle, dipingi ancora en plein air come facevi da ragazzino?

No, oggi parto da una fotografia. Ma in realtà la reale base di partenza è per me l’immagine che ho visto per la prima volta del luogo che poi andrò a dipingere, e che mi rimarrà sempre impressa nella mente e nella retina. La fotografia è un pretesto, mi serve per fissare i dettagli, ma è l’immagine d’insieme, l’impressione che ho avuto che andrà a formare veramente la composizione del quadro.

Le tue spiagge, però, non sono mai quelle idilliache da cartolina, c’è sempre un elemento di dramma, a volte sottile, a volte esplicito, come nel caso della presenza dei migranti appena sbarcati o appena salvati dalla furia del mare…

Sì, io non cerco mai di dipingere la “bella spiaggia”, la mia visione delle spiagge da una parte vuole essere anonima, quotidiana, dall’altra anche carica di storie, di umanità, anche di drammaticità. In questo senso, il mescolare le storie e le immagini delle persone in vacanza con quelle dei migranti viene da una necessità di realismo simbolico, un esempio delle contraddizioni del reale che ci troviamo ogni giorno sotto gli occhi: quelle “vite parallele” che convivono in uno stesso spazio, pur avendo percorsi, emozioni, storie completamente diverse le une dalle altre.

Com’è nata l’idea di inserire le immagini dei migranti all’interno dei tuoi quadri?

Tutto è iniziato con un viaggio a Lampedusa che ho fatto con la famiglia e con degli amici, intorno al 2004-2005. Eravamo in spiaggia a prendere il sole e a fare il bagno, e all’improvviso abbiamo assistito a uno sbarco di migranti.

Proprio lì, sotto i vostri occhi?

Sì, in una giornata soleggiata, una bellissima giornata, così, ecco arrivare la motovedetta della Guardia di Finanza e, dietro a questa, un grande peschereccio su cui c’erano sopra 300 persone. È stato un momento scioccante, che mi ha segnato, vedere quelle persone arrivare, cariche di speranza ma anche di paura, che mi ha colpito profondamente e fatto riflettere anche sul senso di ciò che io stesso volevo fare e rappresentare con la mia pittura. Ho visto e toccato con mano, vorrei dire, il dramma e la vicenda umana di quelle persone, molti dei quali erano ragazzi, ragazzini e anche bambini, e ho sentito il bisogno di rappresentarlo all’interno dei miei lavori. È stato come l’irrompere dell’inaspettato nella vita ordinaria, che mi ha spinto a produrre, anche a livello pittorico, una frattura, un senso di inquietudine, di dramma. Senza retorica e senza neppure tanti discorsi, semplicemente rappresentando il reale, così come l’ho visto io e come migliaia di persone lo vedono e lo vivono ogni giorno. Così è nata una serie di dipinti dedicati a questo tema, che ho esposto anche alla Biennale di Venezia nel 2011.

C’era in questo anche un significato sociale e politico?

Guarda, io ritengo che il realismo abbia sempre il compito di riflettere anche la questione sociale, lo è storicamente, da Courbet in avanti; tuttavia non credo che l’arte debba avere una valenza strettamente politica, cioè legata al contingente, perché se per caso vi fosse una venatura politica, questo per me decreterebbe la fine dell’artista. Io per esempio, come persona, sono una persona impegnata anche nel sociale, però non lo faccio e non mi interessa farlo nel mio lavoro, come fosse uno slogan o una dichiarazione politica. Questo ucciderebbe la poeticità e la potenza espressiva dell’arte.

Quindi è e rimane esclusivamente una questione legata alla rapprresentazione, al significato simbolico di ciò che dipingi.

Se vogliamo sì, io in questi ragazzi che sbarcavano dal barcone ci ho visto la stessa corporeità che già vedevo nelle spiagge, questo approdo dell’uomo in questa sorta di sudario geografico dove avviene tutto, lo scambio tra popoli, l’idea di un sogno per la realizzazione di una vita, o anche la vacanza che, per il turista, è un momento di sospensione del tempo, con tutto il suo carico di divertimento ma anche di smarrimento, di riflessione, come il manifestarsi di un tempo “altro” dall’ordinario.

Il tema dei migranti è proceduto parallelamente e in certi casi anche contemporaneamente a quelli con i bagnanti, come due mondi che a un tratto si incontrano, eventualmente anche nello stesso quadro…

Sì, questa contrapposizione mi ha sempre colpito. È un modo per riflettere sulla complessità del mondo in cui viviamo. Tuttavia, ora ho chiuso quel ciclo e ora sto esplorando altri temi, come il rapporto tra uomo e natura nell’era dell’Antropocene.

Ovvero?

Sto lavorando su una serie che esplora l’antropizzazione dei luoghi e il nostro allontanamento dalla natura. Voglio rappresentare come l’uomo ha trasformato e, in molti casi, distrutto il paesaggio. Anche in questo caso, non vuole essere un discorso sociologico o ecologico, ma piuttosto un tentativo di restituire all’arte la capacità di riflettere su questi temi. Voglio mostrare come i luoghi che un tempo erano familiari siano cambiati, come la natura stia lentamente scomparendo sotto l’impatto delle attività umane. È un tema complesso, ma credo che l’artista possa e debba affrontarlo, ogni volta con la propria estetica e il proprio linguaggio specifico.

Mi sembra un progetto molto interessante. Ma come pensi di tradurlo in pittura?

Sto cercando di trovare una nuova estetica che possa rappresentare questo processo. Ho già raccolto molto materiale documentale sui luoghi che voglio rappresentare, ma non mi limito a riprodurli. Voglio interpretare, reinventare, creare qualcosa di nuovo che possa far sentire il dramma di come l’uomo sta distruggendo la natura. Ripeto, non mi interessa fare denunce esplicite o un’arte sociologica, ma usare l’arte per parlare di questi temi in modo poetico e profondo. Alla fine, credo che il compito dell’arte sia proprio questo: interpretare la realtà e offrirne una visione che possa far riflettere.

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