Jeff Koons è, senza ombra di dubbio, l’artista più iconico della surmodernità. I suoi seducenti e sfavillanti balloon dog, i suoi luccicanti Diamonds fittizi, realizzati in porcellana di Limoges, che – miracoli della contemporaneità – valgono più di un diamante vero, le sue ballerine, i suoi Rabbit, Puppit, Monkey, Swan, Hulk, tutta la pletora di “buone cose di pessimo gusto” (per dirla con la penna intramontabile di Guido Gozzano), ricreate dall’artista in formato maxi (ma anche vendute in tutto il mondo in formato-ninnolo, come multipli di lusso, col loro inevitabile corredo di imitazioni – leggasi falsi che non fingono neppure di esserlo – che a loro volta riempiono abusivamente le vetrine dei negozianti di paccottiglia per turisti nelle città di tutto il mondo); quella valanga di oggetti-simbolo del kitsch diffuso, trasformati da questo geniale bardo del più deteriore gusto americano in icone della nuova estetica diffusa di ogni latitudine (dopotutto, diciamo la verità, chi di noi non vorrebbe possedere e sfoggiare su un mobile del salotto, magari in bella mostra tra una statuetta antica ereditata dalla nonna e una copia firmata dell’introvabile Helmut Newton’s “SUMO” Book edito da Taschen, un balloon dog originale formato 48×40?): ebbene, questi oggetti-scultura, questi simboli materiali di un’arte non per tutte le tasche, certo, ma dopotutto abbordabili da quasi tutti (i multipli balloon dog vengono infatti venduti a un prezzo che va da un minimo di 10mila a un massimo di 50 mila euro: mentre un piatto della serie Celebration, sempre multiplo ovviamente, può partire anche da “soli” 1.300 euro), e senz’altro a tutti comprensibili e da quasi tutti amati incondizionatamente (“credo che tutti possano accostarsi al mio lavoro: io non pongo come condizione nessun requisito”, ha detto una volta l’artista, “poiché racconto una storia facile da capire per tutti, sia che se ne colga solo una sfumatura, o che se ne colgano i riferimenti più profondi”); queste opere, dunque, ora esposte a Roma alla mostra The balloons world presso la Galleria Deodato Arte di via Giulia, non c’è ombra di dubbio che rappresentino, oggi, la quintessenza del contemporaneo avanzato nella sua forma più tangibile, accattivante, emblematica: perché insieme iperpopolari e super-esclusive e, almeno nelle loro versioni più pregiate, praticamente inarrivabili per chiunque (la battuta d’asta più clamorosa è ben rappresentata dal Rabbit in acciaio inox del 1986, alto poco più di un metro, venduto da Christie’s a New York nel maggio del 2019 alla maestosa cifra di 91,1 milioni di dollari, record assoluto per un’opera di un artista vivente), coltissime quanto in fondo semplici e comprensibilissime, allegre e divertenti ma dotate anche di una forte base teorica che le sottende e le sostiene dal punto di vista concettuale, iconiche e sofisticate, rassicuranti ma anche leggermente spiazzanti e conturbanti nella loro capacità di mimetizzarsi con i loro omologhi reali (osservatele dal vivo, e vedrete che farete fatica a riconoscere la loro natura di opere d’arte solide e durevoli, tanto è ben imitata la natura effimera del materiale originario con cui vengono realizzati i “veri” palloncini!).
Amate e ricercate dai collezionisti più raffinati, che ne vedono un’evoluzione ipercontemporanea del feticcio della merce che già sedusse prima Duchamp e poi Warhol, esse sono in realtà adorate anche dal pubblico meno snob, che ne avverte la seduzione, tutta pop, dell’oggetto prodotto in serie, luccicante, levigato e allegramente colorato, privo di reale valore in sé ma fortemente caratterizzante dal punto di vista identitario e affettivo, che contraddistingue la nostra contemporaneità: quel dilagare di piccoli oggettini realizzati in milioni di esemplari che troviamo ovunque nei negozi di souvenir di tutto il mondo, la cui memoria sembra seguirci con insistenza e permearci per tutta la nostra esistenza di uomini post-contemporeanei – statuette dai soggetti banali, ninnoli luccicanti, cuoricini, animaletti, puppets; e che, sebbene nati per essere riprodotti in serie e apprezzati come oggetti popolari, nel lavoro di Koons assumono invece un’aura di esclusività, un tocco di intelligente auto-riflessione di cui non sempre riusciamo a stabilire l’origine e il senso ultimo: ci piacciono, certo, ma perché ci piacciono?
“Ho sempre pensato che il mio lavoro potesse partecipare all’avanguardia e si basasse sulla tradizione del readymade, ma allo stesso tempo ho sempre cercato di essere più comprensivo, meno conflittuale”, ha detto Koons in un’intervista. “Ho sempre sentito un’affinità per Duchamp e i suoi oggetti, ma volevo anche che le mie sculture fossero più vicine agli oggetti di Brancusi, alla sua finitura, alla sensualità delle sue forme”.
Brancusi o Warhol, è certo che gli oggetti-scultura di Koons, se di Duchamp posseggono la forza concettuale decontestualizzante, di altre tipologie e tradizioni culturali posseggono invece l’energia estetico-formale e la seduzione della “buona fattura”, della qualità dell’esecuzione, della levigatezza e luminosità del materiale. Del resto, una delle prime opere con cui l’allora giovane Koons si fece notare furono proprio degli oggetti-feticcio che in qualche modo potevano sembrare derivativi del lavoro di Duchamp, ma con un tocco di Warhol: tre aspirapolveri, messe in una teca e illuminate come altarini contemporanei, esposte nelle vetrine del New Museum di New York nel 1980.
Elettrodomestici-feticci che ponevano già un singolare, levigato punto di fusione tra il concettualismo “freddo” di Duchamp e il caldo e seducente pop di Warhol. “L’idea di queste opere”, racconterà in seguito l’artista, “è che gli oggetti possono raggiungere uno stato ultimo impossibile per noi umani: noi ci dobbiamo deteriorare. Questo confronto mostra l’aspetto minaccioso dell’oggetto, il suo potere su di noi, perché, sotto molti punti di vista, è più forte e meglio preparato a sopravvivere”. C’è già, in questi feticci del consumismo contemporaneo, tutto l’interesse e l’attenzione di Koons per la seduzione del gusto “banale” della contemporaneità, e al contempo la sua permeante capacità di sedurci, di affascinarci, di rappresentarci: la sua attenzione per l’oggetto quotidiano, svuotato dall’aura consumistico-sacrale, ma anche di critica sociale, con cui lo circondava la Pop Art, la trasformazione in larga scala di oggetti tipici e banali della vita suburbana americana in potenti simboli della nostra contemporaneità, che parlano al nostro quotidiano ma anche al nostro desiderio di immortalità, di elevazione oltre il consumistico feticcio del mercato (e del supermercato) tipico della cultura Pop. Ma c’è prima di tutto la capacità di farci immedesimare con il fascino per le merci di cui pullulano le vetrine dei negozi nell’era della società dei consumi nella sua fase più avanzata. “Ho sempre avuto una grande familiarità con le vetrine perché mio padre aveva un negozio di mobili”, racconterà Koons in un’altra intervista. “E quando ero giovane mostravo le mie foto nella vetrina del suo showroom. Quella vetrina, o la vetrina in generale, è quasi come una membrana di pelle tra i nostri desideri interni e i nostri desideri esterni”.
La biografia artistica di Koons, del resto, parte proprio da un negozio di mobili nella provincia americana. Cresciuto in una grande villa georgiana nei sobborghi benestanti di York, in Pennsylvania, coi genitori e una sorella, nella sua infanzia e adolescenza viene trattato, come racconterà lui stesso, “come un principino”: la madre, casalinga e sarta per hobby, lo incoraggia nelle arti e nel disegno. Il padre diviene una figura centrale nella formazione del giovane Koons: non solo perché, col suo negozio di interior design (una sorta di mini-Ikea di provincia, dove le ambientazioni perfettamente ricostruite di sale da pranzo, cucine, camere da letto si alternavano di settimana in settimana), forniva al ragazzo la sensazione di muoversi in una stanza delle meraviglie, sempre cangiante e sempre perfettamente sfavillante (“Entrando in quello spazio”, racconterà in seguito l’artista, “provavo emozioni sempre diverse. Mi sembrava di venir manipolato, e la cosa mi piaceva”), dandogli la sensazione di trovarsi nel cuore stesso del “sogno americano”, fatto di famiglie eternamente felici, spensierate, benestanti e socialmente appagate; ma anche perché è lo stesso padre a vendere i primi, acerbi lavori del ragazzo: “Se un cliente voleva una particolare opera d’arte, io la copiavo con grande cura e lo firmavo ‘Jeffrey Koons’”.
Ecco dunque emergere già, fin dalle sue primissime opere, gli elementi che caratterizzeranno in seguito le opere del padre dei Balloon Dog: copia e citazione dalla grande storia dell’arte, attenzione al prodotto finito e alla sua capacità di sedurre un pubblico vasto, fascinazione dell’estetica del consumismo, dove soddisfare i desideri della “gente comune” attraverso gli oggetti-feticcio è l’imperativo principale. Ed è proprio alla pubblicità, ai gingilli, agli status symbol domestici e quotidiani della classe media che si rivolge l’attenzione del giovane Koons quando muoverà i suoi primi passi nel mondo dell’arte: non a caso, la sua prima mostra personale importante, del 1986, intitolata “Luxury and Degradation”, si ispirerà alla pervasività e alla manipolazione prodotta dalla pubblicità in un campo che per gli americani è un vero e proprio flagello, l’alcolismo, tra pubblicità riprodotte, con perfetto stile iperrealista, a olio su tela, piccoli monumenti alla bottiglia e a servizi di liquore ricreati, in splendente acciaio inossidabile (materiale prediletto da Koons perché quello “del proletariato americano”, con le sue pentole e stoviglie lucidate).
E, anche negli anni e nei decenni successivi, quando piano piano l’artista comincerà farsi conoscere sempre maggiormente e poi a diventare sempre più apprezzato e osannato dal mercato dell’arte internazionale, la carriera di Koons si concentrerà via via su opere che, con la loro aria comune, “banale” (parola che l’artista ama per la sua indeterminatezza, ben più dell’inflazionato kitsch, che presuppone già in sé un giudizio di valore da parte di chi lo pronuncia), rappresentano per chiunque un richiamo irresistibile alla propria infanzia, alla propria memoria quotidiana più autentica e profonda: come i gonfiabili delle feste per bambini o delle piscine delle ville e villette suburbane, o le statuine dei salotti piccolo-borghesi, le vuote e stucchevoli immagini di dolciumi, gadget, orsacchiotti, putti, animaletti da giardino, icone dell’American Way of Life: tutto quel corredo estetico maldestro e consolatorio di una classe insieme appagata e frustrata dalla propria mediocrità senza gusto, sarà il tema e il soggetto privilegiato di un’arte che aspira a trasformare la cultura popolare in status symbol.
C’è infatti un desiderio di trascendenza, di mitizzazione rituale della cultura estetica del contemporaneo, che pervade tutto il lavoro dell’artista, dagli esordi fino ad oggi. “Io lavoro”, dirà l’artista, “sulle dimensioni dell’immaginazione. A volte ingrandisco gli oggetti per trasformali in archetipi”. Quelli scelti da Koons come soggetti privilegiati delle sue opere sono oggetti che, spiegherà l’artista, contengono già in sé “una qualità mitica rituale”, che l’artista, come un demiurgo, ha il compito di far emergere, di portare allo scoperto. Parlando proprio del suo soggetto più iconico, il Balloon Dog appunto, Koons ha detto una volta che questo oggetto è “fondamentalmente mitico”: “c’è un senso profondo al’interno dell’opera, che è un po’ come un cavallo di Troia. È totalmente calato nel presente, come il palloncino di una festa di compleanno, e poiché è ancora gonfio, puoi immaginare che la festa di compleanno sia stata recente, non di 20 anni fa. Allo stesso tempo, però, c’è una qualità mitica e rituale in esso: puoi immaginare le persone che girano intorno al Balloon Dog in una sorta di danza rituale. Sì, credo che possieda una qualità tribale”.
Forse è proprio questo il segreto del Balloon Dog e dei suoi simili: grandi o piccoli che siano, sono la trasfigurazione concreta, plastica, materiale, di totem contemporanei. Ce ne sentiamo attratti, soggiogati, affascinati: di fatto, sentiamo che esso ci appartiene, appartiene al nostro tempo, al nostro gusto: è il simbolo stesso della grande tribù del contemporaneo. Tribù a cui noi tutti, ci piaccia o no, sappiamo di non poter fare a meno di partecipare. E, così come un tempo Benedetto Croce teorizzava che “non possiamo non dirci cristiani”, così oggi, con Jeff Koons e i suoi ninnoli trasformati in sculture-feticcio, noi non possiamo che ammettere di non poter non definirci appartenenti, tutti, alla grande tribù del consumismo, o del capitalismo avanzato, che è poi la stessa cosa. E per questo, non possiamo non amare follemente questi piccoli feticci del contemporaneo che fatalmente ci rappresentano, in cui riconosciamo noi stessi, il nostro animo, la nostra infanzia, le nostre fragilità e i nostri desideri più reconditi. Sono i nostri piccoli totem, e noi gli antichi membri di una religione che non può far altro che amarli, venerarli, desiderarli alla follia, perché appartengono al nostro immaginario più profondo, alla nostra storia e al nostro inconscio più di quanto saremmo mai disposti ad ammettere.