Killers of the Flower Moon: la banalità del male secondo Martin Scorsese

Martin Scorsese è uno dei registi più influenti e prolifici della storia del cinema, determinato da uno stile e uno sguardo vigoroso, personale e sontuoso, che ha saputo evolversi nel corso del tempo. Scorsese, che non ha mai avuto paura di porsi delle domande difficili, lungo la sua carriera ha spesso rincorso temi molto simili, come il potere, i soldi, colpa e redenzione, e la storia, nel suo senso più etimologico e più pieno, che la avvicina più a una indagine, a una ricerca che ad una stesura monolitica e cronologica. 

Con Killers of the Flower Moon, ultima brillante ed eccelsa fatica scorsesiana, il regista consegna al nostro sguardo un racconto epico, un affresco che ha il sapore della denuncia, quasi un termometro visivo, un indicatore sullo stato del (suo) cinema. 

Quest’opera, oltre che vantare un cast impressionante, tra cui Leonardo DiCaprio, Robert De Niro, Jesse Plemons, Lily Gladstone, Brendan Fraser e John Lithgow, porta sullo schermo una storia vera su una serie di omicidi che colpirono i nativi americani Osage, che all’inizio del Novecento scoprirono giacimenti petroliferi nelle loro terre. La tribù accumulò immense ricchezze grazie alla concessione dei diritti minerari e all’affitto dei terreni agli imprenditori, ma questa fortuna non li riparò dalla minaccia e dall’invasione di speculatori che furono capaci di qualunque nefandezza pur di appropriarsi delle loro ricchezze.

Durante i primi anni del XX secolo, la tribù Osage, che viveva in una riserva dell’Oklahoma, ha vissuto un periodo terrificante, pieno di paura, violenza e morte. Il racconto trae ispirazione dal famoso saggio di David Grann del 2017 e si concentra non solo sugli omicidi di circa sessanta nativi americani della tribù Osage, avvenuti tra il 1918 e il 1931, ma ci conduce anche attraverso la genesi dell’FBI, un’istituzione che ha svolto un ruolo cruciale nella soluzione di questi omicidi.

A causa delle evidenti discriminazioni razziali, gli Osage, secondo il Congresso, non potevano gestire adeguatamente la loro considerevole ricchezza, così lo stesso votò una legge che richiedeva la nomina di un custode per chiunque avesse discendenza Osage. Da quel momento uomini d’affari e imprenditori si sarebbero trasferiti in quelle terre e avrebbero cominciato a approfittarsi di qualsiasi occasione per ereditare le proprietà, ad esempio sposando le donne Osage, oppure uccidendo e avvelenando gli Osage di cui erano i tutori. Intere famiglie furono decimate, tra queste viene ricordata proprio la famiglia di Mollie Burkhart, protagonista assoluta dell’opera di Martin Scorsese.

Con una cura meticolosa, Killers of the Flower Moon lascia qualsiasi spettatore incantato per più di tre ore. Il film riesce a tracciare un quadro agghiacciante dell’ideologia capitalista e individualista che ha dominato gli Stati Uniti.

L’Oklahoma degli Osage costituisce l’ultima frontiera per i gringos, l’ultimo limite da tracciare, l’ultima conquista da raggiungere dopo la fine dell’epoca western del XIX secolo. La scoperta dell’oro nero in quelle terre portò sì prosperità, ma anche l’ombra dell’insidia, la morte, la corruzione, la depressione: la pellicola è disseminata da simboli, animali che appaiono, come il gufo, che intercede metaforicamente la morte di un nativo Osage, e la progettualità del lutto come momento di crasi esistenziale, in cui vita e morte suggeriscono la propria perpendicolarità. L’oro nero diventa festa, danza, ma anche perdita d’identità, un lusso senza beni, una ricchezza senza eredità. 

È come se al centro della storia ci fosse la volontà, scarnificata e torrenziale, di raccontare una comunità, un popolo che che non ha mai avuto diritto alla proprietà perché per troppo tempo sono stati essi stessi una proprietà che passava di bianco in bianco, di mano insanguinata in colonizzatore. 

Infatti, a mettere in pericolo la loro esistenza sono i bianchi, quelli che hanno fatto del dio denaro il loro credo, e attraverso questa fede edonista giustificano le loro violenze. Violenze che vengono adottate sotto forma di abuso psicologico, fisico, anche medico: provocare malattie e morte, fingendo di curarle, è quello che accade sulla propria pelle a Mollie Burkhart. 

Come dicevamo sopra, Martin Scorsese ha saputo evolversi nel corso del tempo e non ha mai smesso di trasformarsi anche per dare anima e sintesi al suo desiderio di affilare lo sguardo ai tempi che viviamo, senza perdere l’aureola della sua coerenza visiva. 

Si ritrovano in questo film, in forma essenziale, molti tratti distintivi della regia di Scorsese: l’uso di carrellate lunghe, la collaborazione con attori fidati, con cui ha creato un rapporto di amicizia e stima professionale, e come già detto, l’esplorazione di temi come la religione, criminalità, corruzione e redenzione. E sul piano narrativo, grazie al contributo di Thelma Schoonmaker (montatrice e collaboratrice di Scorsese) la storia assume una dimensione temporale articolata da pause, flashback, tagli bruschi, montaggi rapidi, sequenze che sono un elemento distintivo dello stile narrativo di Scorsese. Inoltre i film di Scorsese sono noti per la loro attenzione ai dettagli, che si tratti dell’accuratezza storica di un periodo storico o della precisa rappresentazione di un popolo: tutto per garantire l’autenticità, un approccio che si estende alla scenografia, ai costumi e alla rappresentazione dei luoghi reali.

Scorsese ci restituisce una visione pluriprospettica: ogni personaggio ha la possibilità di raccontare la propria storia, sia Ernst Burkhart (Leonardo DiCaprio), sia Mollie Burkhart (Lily Gladstone), che William Hale (Robert De Niro), vivono sullo schermo una sorta di gioco di vicinanza e lontananza, di amplificazione e riduzione. Mollie Burkhart è decisamente il personaggio più riuscito e interessante di tutti, una donna che sfiorisce, si ammala, si piega, ha lo sguardo livido, plumbeo, consapevole che non avrà vita lunga, e che poi, sempre attraverso la sua interpretazione quasi silente, e una mimesi perfettamente centrata, la osserviamo riemergere, rinvigorirsi, rinascere nonostante il controllo sul suo corpo e il deserto affettivo che la circonda. 

Ernst Burkhart è un essere ingobbito dal male, che si lascia andare a smorfie evidenti, quasi animalesche, segno del suo abisso, un uomo impenetrabile, opaco, serrato nell’unica spinta vitale che lo trascina da un luogo all’altro, i soldi, gli averi, i gioielli. Eppure ha momenti in cui è risoluto, anche ingenuo, fragile, amorevole e letale. Come lui, anche William Hale è un personaggio empio, lambito da ombre lunghe che lo sottraggono a qualsiasi bene, e come tale vive il male come un stato necessario, come le colline si ammantano si fiori, lui si lascia avvolgere e coinvolgere solo dal male, assetato di dominio, la reincarnazione dei personaggi de “Il padrino”, diviso tra affari e famiglia. 

Eppure non sono le tragedie, le vite narrate, o l’FBI a dominare la scena, ma è essenzialmente l’America e la sua ipocrisia, che appare come un fantasma maligno che oblubina le persone con il suo sogno, un immortale che vampirizza (la democrazia) con l’ideologia capitalista e liberista. Un’America che, come mostrato già nel film I cancelli del cielo di Michael Cimino, è l’opposto di ciò che dice di essere, ovvero una terra di libertà e giustizia e del grande sogno americano. Questa è la grande visione che Scorsese ci offre: una storia americana vera che, oltre la semplice cronaca degli eventi, indaga una mentalità di distruzione, responsabile e partecipe di un genocidio. La banalità del male in questo senso, forse, ci suggerisce qualcosa: quanto una nazione possa fondarsi su essa. 

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