La digestione cerebrale dell’opera d’arte secondo una prospettiva neuroestetica, filosofica e neurologica

Percepisco, quindi, sono! Se il fatto dominante dell’esserci alla vita è l’esperienza della vita stessa, cosa ci fa sentire la vita? Proprio il sentire. Questo sentire potremmo definirlo per gradi, dalla percezione materiale fino a quella più fine e raffinata che risiede nella spiritualità o nell’arte come fenomeni percipienti.

Che il fatto della percezione sia importante, anzi capitale, è noto alla letteratura degli studiosi del settore, ma perché riveste questa importanza? Perché è affaire legato all’arte? L’arte è un’espressione empirica della mano umana che entra di diritto tra gli oggetti del mondo, è un oggetto del mondo tra gli oggetti del mondo. È lì, è a nostra disposizione, è presente alla nostra vista, è percepibile. 

Damien Hirst Death Denied 2008

La disposizione alla percezione ne fa un oggetto sensibile. Ma, allora, se è propria dei sensi, cosa ne sarebbe della destinazione dell’arte come centro di un universo categoriale come l’idea di bello? Il bello è di per sé qualcosa che potrebbe concettualmente astrarre un’idea di sé stesso. Il bello non ha una connotazione soggettiva quando questo, il bello, lo si ponga come un ideale.

Quindi? Cosa ne è del bello se lo si riduce nei fatti a un fascio percettivo?

Certamente, la sistemazione del bello nella fisiologia accresce il dibattito tra soggettività ed oggettività dell’esperienza estetica, ma, dopotutto, è l’etimologia stessa della parola estetica a suggerire che questa, dai tempi greci, ha un posto nella percezione. Con questo, nessuno ha la volontà neanche recondita di ridurre una questione così complessa a faccenda veloce o sbrigativa. Fatto è che l’avvento degli studi di neurologia ha modificato l’approccio anche all’opera d’arte dal punto di vista concettuale della sua fruizione come della sua produzione. 

Quali siano questi meccanismi neurali che si attivano alla vista del bello è conquista recente delle neuroscienze e sono individuabili nel campo A1 della corteccia orbito-frontale mediale. Quali sono le ripercussioni tangibili di queste scoperte? Se il bello possiede una dimensione biologica, questa potrebbe essere il termine ultimo di qualunque ragionamento estetico, ma, come detto, non basta a giustificare il complesso processo di questa funzione psichica superiore che termina nel giudizio.

Anzitutto, il giudizio. Giudizio è una parola fortemente osteggiata nella cultura di oggi, dove ciò che ha a che fare con il prendere una posizione circa qualcosa è avvertito con fastidio, non distinguendo, di fatto, questo, il giudizio, con il pregiudizio e la critica, che è altra cosa. Cosa il giudizio sia potremmo prenderlo in prestito dal filosofo Kant che definisce lo stesso come l’unione di un predicato ad un soggetto, che di là della specificità logica operante del giudizio in ambito quasi matematico di un procedimento di rigore scientifico del pensiero umano, diventa l’unione di un oggetto A a un soggetto che coincide con l’essere umano stesso.

Il giudizio riflettente, nella vasta Critica del giudizio kantiana, assolve alla funzione di ricerca filosofica circa la comprensione delle finalità di ciò che ci circonda non altrimenti ravvisabile e possibile nella Critica della ragion pura dove esclude la possibilità di poter esprimere una conoscenza certa di una visione finalistica della natura. Eppure l’essere umano avverte una tensione interna che si trasforma in esigenza di lettura di un fine della natura, un sentimento che muove l’umano. 

Il giudizio estetico può essere empirico o puro, a seconda che sia espressione di una individualità o di una universalità, solo i secondi hanno una natura propriamente universale. Kant introduce allora, per giustificare e sorreggere questa tesi, un espediente concettuale innovativo, la deduzione dei giudizi estetici puri attraverso il gusto come struttura umana comune.

Muse copertina dellalbum The 2nd law

Quindi, in realtà, già la recherche filosofica ha cercato nel tempo di dettare regole di universalità alla ricerca estetica come struttura comune umana, ma la rivoluzione che compie Semir Zeki, il fondatore e la persona che conia il termine neuroestetica, sembra andare oltre. Non è solo una formula congetturale umana, ma il frutto di uno studio sul nostro apparato biologico cognitivo: il cervello. Zeki afferma che l’area di azione del bello sul nostro sistema nervoso centrale attivi contemporaneamente tre funzioni: il piacere, la ricompensa e il prendere decisioni.

Il bello si traduce in piacere, si rende ricompensa ed è attivazione di movimento, perché si traduce nella volontà della scelta. Quanto sia cosciente questo meccanismo di attivazione nell’artista che produce l’opera d’arte non possibile stabilirlo, ma sicuramente l’arte più scaltra induce delle sensazioni che incidono sulla fruizione dell’opera stessa e, perché no, sul suo ruolo nel mercato dell’arte.

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