Le opere presentate alla Biennale 2024 sono state definite “anti-tecnologiche”. Ma ci siamo mai interrogati sull’accesso degli artisti del Global South alle nuove tecnologie? Io sì, e ne ho parlato con la digital artist niueana Katrina Iosia.
Una delle critiche più ricorrenti alla Biennale di Venezia 2024 e alla curatela di Adriano Pedrosa è relativa alla scelta di opere troppo “tradizionali”, non al passo con i tempi. Potrei scrivere un articolo intero sull’utilizzo e sul significato della parola “tradizionale” in questo contesto, ma preferisco – per ora – soffermarmi sul concetto di innovazione in campo artistico.
Da quando mi sono trasferita in Nuova Zelanda e ho iniziato a lavorare nel settore dell’arte qui e in Australia, mi sono resa conto di quanto la nostra provenienza geografica e culturale in quanto italiani ed europei sia un enorme vantaggio. Troppo spesso diamo per scontato l’accesso a un’istruzione all’avanguardia e alle tecnologie più avanzate – che sono, a mio parere, le basi per l’innovazione in qualsiasi campo – partendo dal presupposto che questa condizione sia comune a tutti gli altri paesi del mondo. In molti luoghi del pianeta, invece, i requisiti geo-politici e culturali rendono i processi innovativi molto più lenti e difficili da recepire di quanto essi siano in Europa o negli Stati Uniti.
Le considerazioni appena fatte, seppur generiche, sono applicabili anche al settore artistico e spiegano, almeno in parte, la carenza di opere innovative (intese come digital art, NFT, AI, VR, AR ecc.) alla 60esima Biennale di Venezia. Con la mostra internazionale Foreigners Everywhere: Stranieri Ovunque, il curatore Pedrosa ha voluto dar spazio agli artisti provenienti dal Global South. Le opere di questi ultimi sono state largamente criticate dai giornalisti italiani, e in parte anche europei/statunitensi, che hanno affibbiato loro aggettivi come “vecchie” o, addirittura, “anti-tecnologiche”.
In questo articolo vorrei, invece, fornire un punto di vista diverso da quello di chi scrive dall’Italia o dall’Europa: ho avuto infatti il privilegio di intervistare l’artista niueana Katrina Iosia, una degli esponenti principali della Digital Art in Aotearoa Nuova Zelanda e nella regione del Pacifico.
Laureata in Arti Visive e Design presso Unitec ad Auckland, città dove attualmente risiede, Katrina Iosia lavora sia come designer sia come sviluppatrice. Ha esposto a livello internazionale con il CADAF di Parigi e il VMF di Vancouver, in Canada, e ha partecipato a numerosi programmi e iniziative, tra cui il Digital Fellowship Partnership Program promosso da Australia Council of the Arts e Creative New Zealand, il Pasifika NFTs Pilot di Creative New Zealand e il Digital Moana Fellowship Program del Ministero degli Affari Esteri neozelandese. Nel 2023 ha vinto il prestigioso Contemporary Pasifika Artist Award per i suoi meriti nel campo dell’arte digitale e della realtà aumentata.
Qual è stato il tuo primo approccio all’arte digitale e all’intelligenza artificiale? Che percorso di studi hai fatto e dove hai acquisito le competenze in merito?
Il mio interesse all’arte digitale è nato dalla mia pratica come scultrice. Ho sempre avuto un debole per il concetto di materialità, ed ero affascinata dall’idea di alterare le proprietà dei materiali fisici, oltrepassando i limiti dei media tradizionali. Mi sono chiesta come il mio lavoro si sarebbe tradotto in uno spazio digitale e come avrebbe potuto rispondere alla mia pratica fisica in un ambiente ibrido e condiviso. Questa curiosità mi ha portata a esplorare l’arte digitale come continuazione del mio percorso, consentendo alla mia pratica di evolversi attraverso i mezzi di VR, AR, MR e AI.
Grazie al mio background multidisciplinare, ho sviluppato un progetto di ricerca personale incentrato sull’esplorazione della scultura digitale e sul concetto di realtà aumentata. Sono un’autodidatta: il mio apprendimento avviene tramite una ricerca continua e prendendo spunto dal mondo dell’arte internazionale e dai progressi tecnologici. Con l’emergere dell’AI, sono stata subito attratta dalla possibilità di tradurre il mio lavoro in chiave futurista.
I mercati NFT hanno fornito un luogo di conservazione dove poter archiviare le mie opere digitali online, così ho prodotto diverse serie di AR e AI NFT. Una delle mie prime serie di AI è stata creata per il mercato NFT e ho avuto la fortuna di avere un pezzo esposto nella mostra Playhouse NFT su MakersPlace, uno dei principali marketplace NFT. La combinazione di AI generated art e NFT mi ha fornito l’opportunità unica di creare pezzi sperimentali, mentre facevo ricerca per trovare il modo di trasformare i miei dipinti in un AI NFT. La mia ricerca si è concretizzata nell’opera Domesticated Materiality Part 2 (2023), che è stata esibita nella mostra South-Versed 23 presso Depot Artspace, Tāmaki Makaurau Auckland.
Qual è l’ostacolo principale per gli artisti provenienti da Aotearoa Nuova Zelanda e dalle Isole del Pacifico quando si tratta di incorporare l’arte digitale nella propria pratica?
Dalla mia esperienza come artista in Aotearoa, ritengo che ci siano ancora delle barriere significative. Una delle sfide principali sono i pregiudizi sociali: spesso le istituzioni più importanti si mostrano interessate a finanziare l’utilizzo di nuovi media solo quando presentati da un* artista affermato/a. Sono convinta che ci siano tanti artisti talentuosi che si servono delle nuove tecnologie per realizzare le proprie opere, ma purtroppo non viene loro fornito sufficiente supporto da parte delle istituzioni. Credo, inoltre, che si guardi all’arte digitale come a un “sostituto” dell’arte fisica tradizionale.
Cosa rende difficile ottenere nuove tecnologie in Aotearoa? Puoi raccontare brevemente la tua esperienza con la dogana?
Quando si tratta di importare nuove tecnologie in Aotearoa Nuova Zelanda, il processo può essere piuttosto impegnativo, a seconda del tipo di attrezzatura. Ci sono spesso ritardi dovuti alle normative doganali, il che rende l’attesa lunga e frustrante. Nonostante si tratti di attrezzature per progetti creativi, il passaggio alla dogana comporta costi elevati, un sacco di burocrazia e lunghi tempi di attesa per l’approvazione.
Pensi che il pubblico neozelandese e australiano apprezzi l’arte digitale tanto quanto il pubblico europeo o americano? Perché?
Ritengo che qui l’arte digitale sia generalmente ben accolta, ma il livello di apprezzamento spesso dipende dalla familiarità del pubblico. Ad esempio, le esperienze digitali più riconoscibili, come festival di luci o video, tendono a essere accolte più facilmente perché le persone sanno cosa aspettarsi. Tuttavia, quando si tratta di forme di arte digitale più sperimentali o interattive, l’accoglienza può essere mista. Sebbene vi sia un crescente interesse per i media digitali, penso che ci sia ancora un divario nel modo in cui essi vengono percepiti rispetto alle forme d’arte più tradizionali. In Europa e negli Stati Uniti, l’arte digitale fa parte del dibattito pubblico da molto più tempo e se ne apprezza il potenziale innovativo. Le principali istituzioni all’estero hanno maggiori probabilità di integrare l’arte digitale nei loro programmi, trattandola come una forma d’arte a sé stante.
In Aotearoa la scena si sta evolvendo, ma ho ancora la sensazione che l’arte digitale sia vista più come “un’aggiunta” alle mostre fisiche. Ciò può rendere più difficile per gli artisti digitali essere pienamente riconosciuti per il loro lavoro. Inoltre, l’esposizione del pubblico a questo tipo di opere può essere limitata dalla disponibilità delle infrastrutture tecnologiche, così come dalle risorse per supportare progetti sperimentali.
Detto questo, credo che le cose stiano piano piano cambiando e nutro grandi speranze su come l’arte digitale continuerà a evolversi in Aotearoa e in Australia.
Secondo te, qual è il motivo principale per cui l’arte digitale non è molto popolare tra gli artisti indigeni di Australia, Aotearoa NZ e del Pacifico?
Dalla mia esperienza personale, credo che l’arte digitale sia in realtà piuttosto popolare tra gli artisti indigeni. Il vero problema è che organizzazioni e gallerie spesso non sanno come supportare queste opere o comprenderne appieno il valore. Questa mancanza di supporto può creare una barriera per gli artisti, soprattutto quando il loro lavoro si spinge troppo oltre i confini o esula dalle aspettative tradizionali.
Ho riscontrato questo problema in prima persona, nonostante io sia un’artista multidisciplinare. Non è facile far riconoscere l’arte digitale come un’entità a sé stante. Per molti artisti, l’ostacolo più grande non sta nell’utilizzare i media digitali, ma nel trovare le giuste piattaforme e opportunità. Io ad esempio, trovo spesso più facile esporre le mie opere all‘estero, dove c’è più apertura nei confronti dell’arte digitale e ci sono infrastrutture adeguate alla sua recezione.
Sono fortunata a far parte della scena artistica digitale internazionale, dove ci sono comunità che comprendono appieno il panorama digitale in evoluzione. Ho imparato molto dai miei colleghi all’estero e ho iniziato ad organizzare workshop e corsi per condividere la mia esperienza in Aotearoa. La mia speranza è che, con il tempo, le istituzioni qui acquisiscano maggiore sicurezza nella loro capacità di supportare l’arte digitale e riconoscere l’incredibile innovazione che sta caratterizzando le comunità indigene.
Vorrei ringraziare Katrina Iosia per le sue risposte dettagliate e per aver generosamente (e coraggiosamente!) condiviso la sua esperienza con un pubblico d’oltreoceano.
Anche l’arte digitale ha una tradizione nel senso che i parametri estetici di questa produzione artistica non sono altro che uno sviluppo di ciò che una volta si chiamava video arte. Lo schermo e l’immagine elettronica sono le condizioni essenziali e poietiche di questo genere, che sarà il nuovo classicismo futuro un nuovo vitruvianesimo, così il 900 risulterà e sarà studiato solo come un momento storico di perdita dell’ aurea.