Un suono continuo, un rumore bianco e ovattante è ciò si associa ai 14 dipinti che Mark Rothko ha ideato tra il 1965 e il 1967 per la Rothko Chapel di Houston, in Texas (1970). Non è il silenzio del vuoto privo di appigli che crea eco intorno a noi: il “vuoto” che offrono queste opere è una presenza che ingloba lo spettatore e lo rende parte della tela. Recentemente, è stato comunicato che la cappella rimarrà chiusa per un tempo indefinito per lavori di manutenzione e messa in sicurezza della struttura a causa dei danni provocati dall’Uragano Beryl, per cui non dovrà essere sanata solo la struttura architettonica, ma anche tre dipinti, protraendo la manutenzione e il restauro fino a quando necessario.
Mark Rothko, artista considerato appartenente all’Espressionismo Astratto, non vorrebbe leggere altre righe sulla sua opera. Da una testimonianza di John Fisher, nel volume Scritti sull’arte. Mark Rothko (Donzelli), in un dialogo nel bar deserto di una nave da crociera, Rothko confessa che, se Fisher fosse stato anche solo un minimo competente in materia, egli non avrebbe continuato la sua conversazione con lui, poiché detesta i critici e gli storici dell’arte che vivono di interpretazioni fasulle sul lavoro che produce.
Tra coloro che rientrano in questa schietta e crudele descrizione rientra Clement Greenberg, insieme ad altri nomi illustri della Storia dell’arte. Greenberg, teorico del Modernismo, riduce l’importanza dell’opera alla forma e vede nelle tele della maturità di Rothko – grandi teleri composti da pittura a olio stratificata in grandi campiture rettangolari – un puro “color field painting”, una pittura a campi di colore, dove non c’è spazio per alcun riferimento che faccia da specchio alla realtà o all’interiorità: forma e colore puri, il mezzo e lo strumento dell’arte che azzerano il contatto con il reale.
Tuttavia, che si tratti di pannelli dai colori sgargianti o colmi di grigi, neri, maroons e viola, Rothko afferma che la sua opera è profondamente radicata nella condizione umana, nell’occhio dell’osservatore che piange alla vista delle opere perché sente dentro di sé che c’è qualcosa che lo smuove all’esterno e lo scuote, ma non sa ancora riconoscerlo, in un sodalizio tra spiriti di dimensioni diverse, l’umano e la tela. Si manifestano, così, “le emozioni umane più basilari – la tragedia, l’estasi, il fato avverso” che non sono mai definite dagli stessi schemi e circostanze, così come l’opera non deve essere intermediata da un’interpretazione a priori che guidi lo spettatore: quello che essa comunica sulla realtà emergerà dalla contemplazione.
La Rothko Chapel è stata ideata per questo. Commissionata da John e Dominique de Menil, a partire da un progetto dell’architetto Philip Johnson, l’edificio è un ambiente a pianta ottagonale, rivestito all’esterno di mattoni rossi. La cappella è concepita come luogo di contemplazione e di raccoglimento ecumenico e aconfessionale, e come parte delle opere in essa contenuta. A fronte di una produzione cromaticamente più accesa che riguarda il lavoro precedente di Rothko, in questo luogo siamo accolti da una serie di opere in cui domina il nero, insieme al viola e al rosso scuro.
Rothko sosteneva che non si può giudicare il singolo lavoro di un artista, ed è nostro dovere intrecciarlo a tutta la sua produzione precedente. Le 14 tele della Rothko Chapel si inseriscono in un contesto di piena maturità espressiva del pittore, in un percorso che dal figurativo della produzione degli anni 20 e 30, sfuma verso l’utilizzo del puro colore per sovrapposizioni. In contrasto con le tele quasi monocrome, nella parete d’ingresso tra due porte, un pannello con una zona rossa interna spezza bruscamente il lineare percorso visivo. I viola scuro circostanti, invece, cambiano di intensità a seconda della luce che colpisce lo spazio.
È proprio la luce l’elemento portante della composizione: Rothko, nel suo studio, aveva ricostruito gli spazi in cui sarebbero stati esposti i suoi dipinti. L’idea di fondo, come afferma Riccardo Venturi nella monografia dedicata all’artista Mark Rothko (Giunti, Arte e Dossier), era che le opere fossero colpite da una luce che consentisse il lento succedersi di delicate sfumature, ben diverse dalle forti luci del Texas. Perciò, l’artista, nella progettazione dell’allestimento, aveva deciso di inserire un doppio soffitto, un pannello con un foro al centro che modulasse l’entrata della luce. Gli agenti esterni, così come la struttura e la destinazione d’uso, ruotano attorno alle enormi tele: ogni cosa è inghiottita dall’apparente monocromia delle opere. Si crea un senso di intimità nella speranza di poter esprimere, attraverso la semplicità, un concetto complesso.
Anche la dimensione del tempo, che solitamente esula dalla pittura, arte orizzontale e spaziale, è inglobata dalla Rothko Chapel. Dopo la morte dell’artista, infatti, viene eseguita nella cappella l’opera musicale di Morton Feldman, compositore americano amico dei coniugi De Menil, vicino allo sperimentalismo di John Cage. L’omonima Rothko Chapel (1971) privilegia il silenzio, evocando l’idea di vuoto come acquisizione dello spazio, cosa che Feldman ha deciso di manifestare nella trasposizione in musica della stasi e dell’immersività delle opere.
Si parla di un “pubblico di morti” a cui sembrano indirizzati i piano e i pianissimo della composizione, dove l’importante è il declino e l’allontanamento del suono. La ripetizione caratterizza l’opera di Rothko le cui tele sono collocate più in basso o più in alto nella cappella secondo uno studio dell’impatto totale che la sequenza deve avere sullo spettatore, verso l’abolizione di confini netti tra l’uno e l’altro. Anche la musica di Feldman deve far confluire i suoni, ma per sezioni contrastanti.
È un caso di traduzione particolarmente complicato, in cui il compositore tenta di restituire in lingua musicale una serie di dipinti: la verticalità che ci proietta verso il Paradiso è la dimensione in cui collochiamo la musica, pura dimensione temporale. In contrasto, la pittura è collocata nel reame dello spazio e dell’orizzontalità, alla ricerca della predestinazione, nella tridimensionalità apparentemente negata dal colore puro.