Possiamo definire la Street Art un movimento o una tendenza dell’arte contemporanea? Se si, possiamo ancora chiamarla “Street Art”? Quali sono le caratteristiche che la contraddistinguono dalle altre forme artistiche e quali sono i suoi principali protagonisti?
A queste domande tenta di dare risposte la mostra “Street Art Revolution”, curata da Giuseppe Pizzuto e dalla galleria Wunderkammern, con la direzione artistica di Luca Bravo, in programma al Palazzo Tarasconi di Parma fino al 2 marzo 2025.
Una mostra ambiziosa e anticonformista, che prosegue il filone di indagine del contemporaneo iniziato con le esposizioni di Roy Lichtenstein e Keith Haring, e che vuole fare il punto su uno dei filoni artistici più controversi, acclamato dal grande pubblico ma anche spesso criticato dagli addetti ai lavori: quello della Street Art.
Trattandosi di una storia ormai lunga, complessa e globale, le cui origini risalgono alla fine degli anni Sessanta nella metropolitana di New York, la scelta curatoriale è stata quella di raccontarne un frammento (come dichiara Giuseppe Pizzuto), ponendo l’accento soprattutto sui luoghi, sulle città e sulle nazioni che ne hanno testimoniato la diffusione a livello mondiale. Il percorso di mostra è stato quindi concepito come un viaggio a tappe, che metaforicamente si dipana attraverso quattro linee della metropolitana, a cui sono state rispettivamente associate diverse aree geografiche (verde – Stati Uniti, gialla – Francia, azzurra – Regno Unito, rossa – Europa). Ogni fermata è rappresentata da uno dei protagonisti di questa storia e ogni linea si interseca con un’altra a indicare le contaminazioni, le influenze e gli incroci, che dimostrano quanto la Street Art sia un movimento libero, fluido e in espansione sia in senso temporale che spaziale.
La metafora della metropolitana è ben concepita in quanto, negli anni Settanta, la Subway newyorkese si trasforma in pochi anni in un mezzo di comunicazione fra le diverse sub-culture dei giovani che muovono i primi passi nei quartieri della metropoli. Fare graffiti o writing consisteva, infatti, nel diffondere il più possibile il proprio nome (tag) per le strade e sui vagoni della metropolitana. Meno scontato è intuire invece il collegamento con Andy Warhol, l’artista che apre la mostra con le sue Campbell Soup: pioniere della Pop Art, la sua influenza sulla Street Art si ritrova nei concetti di ripetizione e ripetitività, che accomuna tutte le forme di arte di strada. Il writer ripete ossessivamente il proprio nome sui muri così come lo street artist riproduce serialmente la propria icona-logo sulle superfici esterne della città.
Sicuramente debitore della lezione di Warhol è anche un artista come Shepard Fairey, in arte Obey (cui recentemente è stata dedicata un’importante retrospettiva alla Fabbrica del Vapore di Milano) la cui opera di diffusione su larga scala degli adesivi con la scritta “André the Giant” è stata mediata dalle pervasive strategie di propaganda dei manifesti pubblicitari che hanno anche condizionato Warhol.
Tra i mezzi tecnici che hanno consentito la diffusione e propagazione dei messaggi e delle immagini della Steet Art c’è sicuramente lo “stencil” (la mascherina ritagliata che permette di riprodurre le stesse forme, simboli o lettere in serie). Uno strumento che permette di collegare le piste americane con quelle della Francia, in quanto tra i primi ad utilizzarlo nel contesto urbano vi è il francese Blek Le Rat che dagli anni Ottanta dipinge e diffonde i suoi famosi “ratti” a Parigi, mentre di poco successivo Jef Aéreosol utilizza lo stencil per ritrarre in bianco e nero personaggi famosi, come il famoso murales in onore di Salvador Dalì visibile ancora oggi di fronte al Centre Pompidou di Parigi.
Negli anni Novanta si ritorna nel Regno Unito con il britannico Banksy, l’artista, dall’identità sconosciuta, che ha reso celebre lo stencil. Tra le opere in mostra, una delle 50 stampe a tiratura limitata su cartone con la parola in rosso “Fragile”, graffiata dalle unghie di dispettoso topo bianco, che il direttore artistico Luca Bravo, racconta di essersi inaspettatamente aggiudicata grazie all’invio della frase “I don’t believe in global war-ming” in risposta alla famosa frase di Banksy “I don’t believe in global warming”. “Da lui attendiamo sempre un’ironia amara, coraggiosa, capace di fare quello che noi stessi non abbiamo il coraggio di dire o semplicemente di pensare” dichiara ancora Bravo.
Passando avanti Keith Haring e i suoi Subway Drawings sui fogli neri delle pubblicità scadute, che trasformano i muri delle metro in tele accessibili a tutti, e oltrepassando l’arte di JonOne, uno dei primi e principali esponenti della graffiti art che, dopo aver lavorato ad Harlem (NY), sbarca a Parigi portando l’arte di strada in Europa, il percorso espositivo parmigiano continua con la “European Wave”.
Tra i protagonisti delle nuove generazioni sono presenti le opere di una serie di artisti contemporanei che utilizzano forme espressive e strumenti spesso nuovi e originali: D*Face (conosciuto per il suo stile Pop e le estetiche Punk), Invader (noto per i mosaici ispirati ai personaggi del videogioco Space Invaders), Alexandre Farto aka Vhils (famoso per l’innovativa tecnica a bassorilievo che scava e abrade le superfici murali), The London Police (riconoscibili per le icone degli smile) e gli spagnoli PichiAvo (che combinano le forme della statuaria classica con il linguaggio delle tag).
Infine una piccola sezione dedicata alla scena artistica italiana che, dalla fine degli anni Novanta, si è affermata principalmente nelle città di Milano e Roma. Per quanto riguarda l’underground milanese, non possiamo non citare il lavoro della coppia Microbo e Bo130, attivi nel quartiere Isola e riconoscibili per il microcosmo onirico e surreale che si completa con quello del collettivo degli Orticanoodles, noto per i progetti di arte urbana partecipativa grazie a cui hanno dato vita al progetto Orme nel quartiere di Ortica; per quanto riguarda la scena romana, ritroviamo il duo Sten Lex, pionieri in Italia dello stencil-poster e l’autodidatta Hogre, che illustra gli spazi urbani con le sue installazioni provocatorie.
Per chi si domanda quale sia stata la portata rivoluzionaria di questo nascente movimento, rispondo che per prima cosa si è trattato di una vera e propria democratizzazione, etica e sociale, dell’arte, non più di esclusivo appannaggio delle élite borghesi, ma accessibile a tutti sia per il tipo di messaggi che ha veicolato, che per la sua collocazione urbana.
Di questo parere è Deodato Salafia (founder di Deodato Group, promotore della mostra) il quale afferma “Un’opera d’arte di norma la devi incorniciare e collocare, per questo esistono i curatori. Nel caso della Street l’opera è già collocata, questo la eleva di molto, perché lascia all’artista tutta la potenza espressiva: la forma urbana viene utilizzata come forma artistica”.
Quale raccomandazione per lo spettatore che visiterà la mostra?
Per il curatore Giuseppe Pizzuto l’auspicio è “che tutto questo bombardamento visivo possa scombussolare”. “La Street Art, se vi piace davvero, cercatela per strada perché è là che succede. Le storie, invece, potete cercarle ovunque, anche in un museo”.
Street art = barocco contemporaneo