David LaChapelle torna alla sua origine più autentica. Con la sua ultima mostra, in corso fino al 25 novembre alla Deodato Arte di Roma (Station of the Cross), l’artista noto fino a pochi anni fa per le celebrità pop affronta un tema iconografico che rappresenta un archetipo della nostra civiltà: la Via Crucis, modello “alto” di ispirazione per molti grandi artisti della storia, da Tintoretto a Caravaggio a Rubens fino ai contemporanei, che l’artista rivisita però in maniera del tutto nuova.
“Ho visto molte varianti della via Crucis nel corso degli anni”, ci dice nel corso della sua visita romana per l’opening della mostra. “Di recente, ho visto una via Crucis molto particolare, una versione completamente astratta, in una chiesa cilena, che mi ha particolarmente colpito. E ho anche visto dei rilievi moderni in una chiesa vicino a piazza del Popolo (si tratta della via crucis in bronzo, realizzata nel 1960 da 14 scultori diversi, tra cui Emilio Greco, Antonio Biggi e Michele Guerrisi, per la chiesa di Santa Maria in Montesanto, in piazza del Popolo, ndr). Ma in vita mia non ho mai visto”, continua l’artista, “una via Crucis rappresentata in fotografia”.
Ma la Via Crucis non è solo un paradigma iconografico tradizionale per gli artisti che si sono succeduti nella storia, ma anche un modello di costante devozione popolare, di donne e uomini che ne ripercorrono periodicamente le stazioni sparse per il mondo, trovando nella sofferenza del Cristo un riflesso e un balsamo alle proprie sofferenze quotidiane. “Ho sempre guardato con attenzione a molte fedi diverse”, ci dice ancora l’artista. “Ed è sempre stato un mistero per me, fin da bambino, il significato di queste immagini e di questi rilievi. Nessuno me lo aveva mai spiegato. Crescendo, ho capito il loro significato più profondo: il viaggio della croce. Che non è solamente un simbolo religioso, ma la metafora di una condizione umana che ognuno di noi può mettere in relazione con un percorso di lotta, di perdita, paura, persecuzione… queste immagini ci parlano dell’amore materno e del rapporto con la morte. C’è così tanto lì dentro, esperienze con cui tutti abbiamo a che fare nel corso della nostra vita. Come dice il Buddha, l’unica cosa che abbiamo in comune è che tutti soffriamo. Esserne consapevoli ci unisce in un’unica condizione umana, non solo religiosa. Questa fu l’esperienza che Cristo fece in quanto uomo”. Per questo, tornare a rappresentare il Cristo sofferente “è un modo universale di pregare”.
Ecco infatti che il fotografo, attraverso l’immagine del Cristo che si incammina verso il Golgota con espressione afflitta e dororante (“alla base di queste immagini”, ci spiega, “c’è innanzitutto l’espressione del volto di Cristo”), e servendosi dell’iconografia tradizionale, ne rivivifica e reinterpreta gli antichi significati spirituali, per riportarli nella contemporaneità e renderli così più accessibili non soltanto al ristretto mondo dei conoscitori d’arte, ma a fasce di popolazione tra le più ampie e variegate. In questo senso, come abbiamo già raccontato precedentemente in questo giornale (Tedua, il trapper che conquistò LaChapelle interpretando La Divina Commedia), tornando a utilizzare, come ha fatto in passato, un volto noto della cultura popolare (in questo caso un trapper italiano), l’artista riesce a farsi comprendere, amare, capire da un pubblico estremamente ampio e diversificato, come i ragazzi più giovani, amanti e frequentatori della nuova estetica diffusa e delle tendenze artistiche e musicali più attuali, come il rap e la trap.
Un filo rosso che lega tutta la sua arte: la spiritualità
Sono quindici le stazioni della Via Crucis ricostruite, con la forza del colore e la potenza formale che contraddistingue tutto il suo lavoro, e un’attenzione filologica estrema rispetto agli elementi iconografici della tradizione, da questo fotografo straordinario, che ancora giovane, negli anni Novanta, era diventato celebre immortalando praticamente tutta la gente “che conta” nella società dello spettacolo contemporaneo – complice, idealmente, il suo maestro Andy Warhol, che l’artista conobbe quando aveva 19 anni, ed era in cerca del suo primo impiego come fotografo nella New York degli anni Ottanta, dopo essere fuggito, ancora giovanissimo, dalla cittadina del Connecticut dove era nato, semplicemente per l’impossibilità di resistere nell’ambiente bigotto e omofobico della profonda provincia americana (“Vedevo Andy nei club da quando avevo 14 anni, ma non volevo andare a parlargli finché non avessi avuto delle fotografie da mostrargli”, raccontò qualche anno fa in un’intervista. “Poi una sera ci siamo incontrati a un concerto: mi sono presentato e gli ho subito detto: ‘Sono un fotografo, vorrei poterle mostrare il mio lavoro’. E lui mi ha risposto: ‘Passa a trovarmi nel mio studio. Il giorno dopo ero da lui. Così è iniziata la mia collaborazione con Interview, la sua rivista. È stata una grande scuola: Andy mi ha insegnato davvero molto”).
Ma non è la prima volta, e a questo punto è presumibile che non sarà certo l’ultima, che David LaChapelle dedica alcune delle sue foto e dei suoi cicli a temi religiosi, e specificatamente a soggetti già ampiamente trattati nel corso della storia dell’arte, che almeno fino al Settecento ha pescato prevalentemente (essendo la Chiesa uno dei maggiori committenti dell’epoca) dalla tradizione iconografica del cattolicesimo. Già nel 2003, l’artista, già in procinto di voltare pagina rispetto alla vasta e celebratissima produzione precedente, incentrata sullo sfavillìo, sull’esuberanza, sull’effervescenza della società dello spettacolo e del mondo delle celebrity – ma anche sulle contraddizioni e sull’intrinseco, drammatico senso di decadenza che lo attanaglia –, aveva cominciato a cimentarsi esplicitamente con temi religiosi.
Dal Gesù contemporaneo al Diluvio
Nel 2003, infatti, aveva visto la luce la serie “Jesus is My Homeboy”, incentrato sulla figura di un Gesù Cristo contemporaneo, in una rivisitazione della rappresentazione del Salvatore ritratto nelle vesti di un profeta tornato oggi sulla terra. La domanda alla base di quella serie era semplice e facilmente comprensibile, come tutti i punti di partenza del suo lavoro: quali come sarebbero stati gli apostoli se Gesù fosse sceso sulla terra oggi, nel mondo contemporaneo. Ecco allora una pletora di uomini e ragazzi “qualsiasi”, diseredati, sfaccendati, emarginati, homeless, giovani senza futuro e senza apparente scopo nella vita, tatuati e vestiti come i giovani che affollano le periferie di tutto il mondo, che fino a ieri erano forse stati pusher, tossici, prostitute e delinquenti, che attorniavano un Cristo redivivo nella sua predicazione nell’America di oggi.
E ancora, dopo, nel 2006, alla vigilia di un momento di grande cambiamento per l’artista (proprio in quegli anni si sarebbe trasferito a Maui, nell’arcipelago hawaiano, creando una fattoria biologica e rimanendo, per quasi dieci anni, a curare la terra e gli animali, per “un bisogno quasi fisico di ricongiungermi con la natura”, come avrebbe raccontato lui stesso), l’artista si era cimentato su un altro progetto mastodontico e ambizioso: Deluge (Diluvio). Partito da una visita dell’artista a Roma, alla Cappella Sistina, che lo avrebbe letteralmente folgorato (dalla visione del Giudizio Universale ricevette, raccontò lui stesso, “an aesthetic-mystical shock”, “uno shock mistico-estetico”), questa immensa fotografia, lunga quasi sette metri, riportava al centro del lavoro di LaChapelle temi come la fede e la spiritualità, ma anche la catastrofe, la morte, la pietà, e soprattutto la ricerca di un significato e di una speranza al di là della materialità dell’esistenza. Centrale, l’idea che, pur nel mezzo del caos provocato dall’innalzamento delle acque in cui tutti e tutto sembra perdersi e affondare, le persone ritratte continuino ad aiutarsi a vicenda.
Una fede cresciuta nel tempo
Ma la verità è che bisogna aver molto sofferto, per poter capire a fondo, e saper trasmettere, il senso di sofferenza ma anche di redenzione che la vita può portare con sé. Così, se il 2003 può apparire come un punto di partenza, bisogna in realtà tornare alle sue primissime fotografie: quelle per l’appunto che il giovanissimo fotografo presenterà a Warhol nel 1984 e che gli apriranno la strada alla sua collaborazione con Interview e, da lì, a tutto il lungo e ininterrotto lavoro successivo sul mondo delle celebrity che lo avrebbe reso celebre e ricercatissimo, e quelle immediatamente successive, quando, appena ventunenne, raffigurava, in un’atmosfera rarefatta e quasi mistica, gli amici che lottavano contro la “peste” di quegli anni, l’AIDS: ragazze e ragazzi qualsiasi, immortalati e divinizzati da ombre che evocavano immagini di aureole, con ali da angeli e aria da martiri contemporanei: “La mia fede”, avrebbe raccontato in seguito, “è davvero cresciuta in quel momento. Ho iniziato a fare queste foto con gli angeli e volevo fotografare ciò che apparentemente non è fotografabile”.
Ma anche successivamente, quando comincerà a immortalare le star della musica, dello spettacolo, persino della politica mondiale, da Madonna a Leonardo DiCaprio a Pamela Anderson fino a Hillary Clinton, in realtà il desiderio di spiritualità di LaChapelle è rimasto sempre più che mai vivo, benché temuto un po’ sottotraccia: pensiamo a Tupac Shakur, ritratto nel 1996 avvolto da un’aureola e coperto da un drappo di seta in una posizione che fa pensare a una crocefissione, o a Michael Jackson, trasformato (utilizzando una controfigura del cantante, nel frattempo scomparso) in un American Jesus contemporaneo, o anche al celeberrimo scatto Behold, della più recente serie “New World”, del 2017, in cui un uomo, ritratto di fronte a uno sfondo “selvaggio” e primitivo come fosse in una giungla, appare davvero la personificazione di un redivivo Messia tornato sulla terra.
Quattordici stazioni più una
Oggi, dunque, LaChapelle torna a casa: alla sua dimora naturale, si potrebbe dire, che è una ricerca di spiritualità, di speranza, di comprensione, attraverso i simboli e le figure che le grandi religioni ci hanno sempre fornito, del senso stesso del nostro vivere sulla terra, del nostro soffrire, affaticarci, sperare, tribolare. E lo fa ricostruendo le 14 stazioni tradizionali della Via Crucis (ripercorse una per una, dalla Condanna a morte di fronte a pilato, alla presa della croce, alle ripetute cadute, all’incontro con le pie donne, all’inchiodamento sulla croce, fino alla sua morte e alla deposizione); aggiungendo, però, un’ultima stazione alle 14 canoniche: quella, solitamente considerata come iconografia “a parte”, della sua stessa ascensione in cielo, magnificamente immaginata dall’artista come una presenza, insieme incredibilmente terrena e spirituale, in un vero e proprio paradiso terrestre, rappresentato dall’intrico di foglie della giungla dell’isola di Maui, dove il fotografo ha stabilito da due decenni la sua casa: simbolo, forse, di una sorta di concezione panreligiosa di stampo immanentista, che avvicina la spiritualità cristiana alle antiche religioni dei nostri antenati, nelle quali la natura stessa era, essa stessa, espressione del divino.
Illuminazione divina
Il tornare a rappresentare l’immagine del Cristo sofferente è stato, ci racconta oggi il fotografo, “un’ispirazione divina”. “Anzi, molto più di questo: è stata una sincronicità soprannaturale che ha iniziato ad allinearsi a Maui, quando ho pregato per queste immagini, per capire se dovevo realizzarle o no. Ho ricevuto una risposta alle mie preghiere, e sono rimasto davvero commosso da come il progetto abbia improvvisamente preso il via (si riferisce, evidentemente, alla telefonata che il manager di Tedua gli ha fatto, chiedendogli, proprio mentre lui stava cercando il protagonista della serie, se volesse partecipare al suo progetto sulla Divina Commedia del cantante, come raccontiamo in questo articolo, ndr)”.
Ma, gli chiediamo infine, in un momento drammatico per il mondo, funestato da guerre e violenza generalizzata, parlare della sofferenza di Cristo ci rimanda istintivamente al dolore sofferto dall’umanità in generale: alle guerre e alle stragi che ovunque si perpetrano. L’arte può, dunque, ancora avere il potere, se non quello di cambiare il mondo, per lo meno di alleviare o sanare la sofferenza dell’uomo, renderlo partecipe della sofferenza dei suoi simili? “Penso”, ci dice l’artista, “che l’arte possa generare empatia. L’arte esprime emozioni diverse in così tante maniere differenti. L’arte è un riflesso della vita e può essere utilizzata per portare illuminazione. Può essere usata per ispirare gioia e bellezza in un momento di oscurità del mondo. È una scelta dell’artista decidere che cosa creare”.