Bisognerebbe partire dal nome, che poi è l’ennesimo – ma definitivo – che ha utilizzato per scalare i vertici della musica mondiale. Segno di indecisione? A guardarla muoversi sul palco non si direbbe proprio; per Lana Del Rey, la fatina U.S.A. che ammalia gli spalti, oggi c’è solo la certezza di avere un pubblico e, soprattutto, un’unicità difficile da eguagliare di questi tempi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, a Milano, settantamila fans di tutte le età si sono accalcati a San Siro in adorazione – camminando in silenzio per chilometri intorno all’immenso anello dove di solito corrono i cavalli e così avvicinandosi desideranti alla meta, l’enorme palco che, visto dall’alto, ipotizzo ricordi il centro della Mecca durante il pellegrinaggio o come quando a Lourdes si rievoca il miracolo oppure, sì, come quando ci si avvia tutti insieme allo stadio per sostenere la propria squadra di calcio.
Una processione? Certo, perché sempre di fede si tratta. Ma, se vogliamo raccordare Lana a qualcosa di più americano la probabile domanda potrebbe essere: come fa questa sorta di Trilly sexy a spargere polverina magica su tutto il pubblico facendolo volare all’unisono come fossero tutti innumerevoli Peter Pan inconsapevoli? E già, chiediamocelo. Il mix – che non è certo esplosivo ma nel caso implosivo – può essere letale perché Lana Del Rey cova la sua musica – e il suo personalissimo modo di stare sul palco – depositando in diretta il frutto di diverse culture generazionali e svariate ispirazioni musicali. Io non so quanto sia stata aiutata per mettere a registro la sua originalità; solitamente accade che tocchi ai producers che la sanno lunga prendere in carico un’artista che vale – ma che da sola non può farcela – e portarla in alto. Ma, ad esempio, il cambio dei nomi d’arte utilizzati nel tempo è indicativo perché l’inizio dell’artista è stato claudicante mentre adesso il trionfo è chiaramente inossidabile. A vederla, sul palco, si capisce bene che l’impasto di bellezza, voce, impostazione del personaggio la differenzia da quasi tutte le altre cantanti del momento.
È forse pop il suo? Assolutamente no. Rock? Neanche a parlarne. Un po’ di jazz nella sua musica c’è ma troviamo anche tanta melodia classica modulata dalla sua voce flautata che sembra spostarci all’indietro, un ritorno al passato. Infatti è sulle prime battute del concerto, voltandomi e osservando la folla ammutolita al suo apparire sul palco, che ho pensato al Pifferaio magico dei fratelli Grimm perché, nella Del Rey, c’è sicuramente una spruzzata di tutto ma il mondo che crea rimane fiabesco; è questo il segreto che le permette di rubare il cuore alle adolescenti ipnotizzandole anche quando son cresciute. Ma, ovviamente, negli ingredienti, non manca il country americano – il palco a Milano è molto Nashville anche se – due cambi di luce! – ed ecco che vira su Las Vegas; il blues, quantomeno per la malinconia dei testi – belli, scorretti e spesso intrisi di cultura, non sappiamo quanto superficiale o profonda – ma che sicuramente lasciano intuire che Lana legge i libri e li sfrutta a modo suo.
Forse è esagerato ma molti le accreditano il ruolo di poetessa, come fu per Patti Smith, ma su questo punto servirebbe una verifica. Torniamo a Nashville che, ben prima di Coachella, era il festival americano per eccellenza. Ecco, Lana Del Rey sarebbe piaciuta ad Altman, il cantore supremo e subliminale della provincia americana. Ma, andando avanti con i riferimenti, guardando, ascoltando, assorbito da questi immensi schermi che indulgono su dettagli a volte impietosi ma che riversano in diretta tutto ciò che accade sul palco (compreso il trucco di Lana – che ha fatto scuola per le giovani – nonché delle sue coriste e ballerine) un incastro emerge, all’apparenza eccessivo ma potenzialmente spendibile c’è: si chiama Dylan, di nome Bob, il menestrello di Duluth. So che non si può dire al femminile ma la Del Rey, a pensarci bene, è una vera menestrella americana e sono sicuro che a Dylan lei spesso pensa (non è un caso che nei suoi concerti, quando è l’ora della cover, un must di Dylan prima o poi salta fuori) una citazione che la posiziona in alto, perché lei all’alto punta, creando testi che sarebbero piaciuti al premio Nobel Wisława Szymborska, la poetessa polacca che incideva su carta il suo pensiero come fosse un esercizio di scrittura automatica.
La reverenza verso una cantautrice nasce nel momento il cui si inizia a spargere il concetto che sia poesia ciò che canta. Lana c’è riuscita perché i suoi testi vengono mandati a memoria senza alcuna imposizione scolastica, un freewheeling che le permette di entrare nella testa di chi l’ascolta. Torniamo all’impasto generale della caotica e allo stesso tempo lineare cultura americana di cui lei è intrisa: la musica californiana degli anni Settanta (perché, non vi pare che la mitica Grace Slick dei Jefferson Starship non è parte dell’impasto della fatina?), la swinging New York dei locali a luci basse; Nashville e Coachella, Las Vegas onnipresente.
E che dire del “trip” che ci conduce sotto le scie chimiche oltre il country club? Visioni alla Kerouac di On the road, immersi nel viaggio e nelle droghe, che sempre viaggio sono. A un certo punto il palco appare come uno spazioso night club di lusso ed è in quel momento che si comprende che Lana non è altro che l’ultima eredità e scheggia di un sogno americano che non c’è più e di cui lei si fa medium alla sua maniera: impastando le trame e cantando come un usignolo, infatuando chi ascolta che neanche sa perché sta lì a godere di questa donna irraggiungibile, fredda, dai gusti sessuali inafferrabili che in uno zaino invisibile si porta sulle spalle una cultura creatasi in breve tempo, perché negli U.S.A. il tempo corre in fretta ma, alla fine, come canta lei in Ultraviolence, “ (…) io sono la tua cantante jazz e tu sei il capo del mio culto”. Jazz e misticismo, religioni guaste e pericolose, cosa c’è di più americano?