Una delle paure che accompagna da sempre l’essere umano è quella della morte. Forse, la paura più cosmica che la coscienza possa generare, poiché ci fa domandare se tutto abbia una fine, quale sia il significato della nostra esistenza, cosa ci sia dopo di essa, quando e come avverrà: tutti interrogativi che la rendono un “mistero”, un qualcosa di inevitabile, ma al tempo stesso sconosciuto e che sfugge alla piena comprensione razionale. Forse è proprio questo che ci contraddistingue dagli animali. Se, come sosteneva Ernest Becker, l’essere umano è in grado di riflettere sulle cause che lo portano alla morte e sulle strategie che impiega per evitarla; gli animali, ad esempio, vivono la loro vita senza pensare alla propria dissoluzione – e se anche lo facessero, sarebbe qualcosa di fugace o istantaneo –.
Sviluppiamo, dunque, una serie di strategie per affrontarla, interiorizzarla o addirittura esorcizzarla. Nel saggio L’ultimo messia, il filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe osserva come la coscienza umana sia un’arma a doppio taglio: se da un lato ci permette di comprendere la realtà, dall’altro ci condanna a una consapevolezza dolorosa. Per far fronte a questa minaccia, l’uomo adotta quattro principali meccanismi di difesa che Zapffe riassume in: isolamento, che consiste nel reprimere i pensieri angoscianti; ancoraggio, ovvero l’adesione a credenze e valori che offrono stabilità; distrazione, che ci porta a immergerci in attività quotidiane per distogliere la mente; e sublimazione, che trasforma la paura in espressioni artistiche, filosofiche o scientifiche.
In questo senso, l’arte del catalano Xevi Vilaró, in mostra presso la Fundación Carmen & Lluís Bassat e una collettiva programmata per giugno al Blacklight Art Gallery a Valencia, sembra sovvertire questa certezza: non evita il tema della morte, ma lo accoglie pienamente. I suoi corpi, evanescenti e vulnerabili, non si limitano a riflettere sulla loro fine, ma la incarnano in una narrazione visiva in cui la dissoluzione è inevitabile eppure meravigliosamente estetica. Non c’è paura, ma consapevolezza. Non c’è fuga, ma accettazione.
Le opere di Xevi Vilaró fluttuano in una zona di tensione sospesa, dove il corpo umano si dissolve e si ricostruisce nel dialogo con il mondo naturale. Sono visioni poetiche che rivelano la fragilità dell’essere, il suo legame inestricabile con l’ambiente e, al tempo stesso, il suo bisogno di resistere all’ineluttabilità della fine. La vita e la morte, nelle sue tele, si intrecciano in un equilibrio precario e provocatorio, come in una melodia punk. Infatti, proprio come il punk si fa portavoce della ribellione e della rottura delle convenzioni, le tele di Vilaró trasmettono un’estetica perturbante e straniante, in linea con quanto sosteneva Ann Radcliffe in “On the Supernatural in Poetry”. L’orrore descritto dalla scrittrice del gotico paralizza e destabilizza, esattamente come le immagini di Vilaró, caratterizzate da una staticità inquietante: “L’orrore congela, annienta, lascia il soggetto in uno stato di shock, come se la realtà fosse crollata sotto i suoi piedi”.
I suoi soggetti, privati di dinamismo e sfondo oscuro, sembrano intrappolati in un istante eterno, mentre gli uccelli, rappresentati a volte come radiografie, suggeriscono una visione spettrale, come se fossero impronte residue di un’esistenza ormai evanescente.
In un’intervista rilasciata a betevé, Xevi Vilaró ci ricorda che nel dipinto Nectar 5 “anche la testa con i fiori, se fossero reali, se per un primo momento può sembrare qualcosa di bello, dopo due settimane sarebbe tutto appassito, è la morte”. Questa riflessione pessimista sottolinea il contrasto tra la bellezza effimera e la sua inevitabile decadenza, un tema che richiama il pensiero nichilista e antinatalista contemporaneo, primo fra tutti quello di David Benatar, secondo il quale sarebbe preferibile non venire mai al mondo, oppure si potrebbe valutare l’idea che l’unica scelta razionale per evitare la nascita e, di conseguenza, la sofferenza, sia la prevenzione dei rapporti procreativi.
Una posizione paradossale e provocatoria quella, invece, di Vilaró dove la morte, sebbene latente, è sempre presente e consapevole, ma allo stesso tempo c’è una lotta per resistere e per emergere, come simboleggiato dal volo degli uccelli che non si arrendono alla quiete, ma sfidano il destino della fine.
C’è un duplice aspetto fondamentale da considerare: da un lato, il fascino intrinseco della natura, dall’altro, l’impellente necessità di proteggerla. Le opere di Vilaró parlano attraverso simboli evocativi, dove l’inquinamento e la distruzione ambientale diventano presenze silenziose ma inquietanti. Non è un caso che i volti dei suoi personaggi siano spesso celati dietro maschere della peste nera o antigas della Seconda guerra mondiale, immagini cariche di significato che trasformano la sua pittura in una denuncia visiva contro l’interferenza e la devastazione ambientale causata dall’uomo.
Vilaró non si limita a rappresentare la natura, ma ne mette in luce la fragilità di fronte all’intervento umano, sottolineando con forza il ruolo devastatore della nostra società. “Siamo una piaga, parassiti egoisti e distruttivi… l’economia, il desiderio di potere… questa fame insaziabile… tutto per il denaro”, afferma l’artista. Le sue tele ad olio su metacrilato diventano un grido di allarme, un monito che invita a riflettere sulla nostra responsabilità collettiva e su quale futuro vogliamo costruire. Da qui l’idea dell’artista di vandalizzare alcuni suoi dipinti con bombolette spray e buttarli letteralmente fuori dalla finestra del suo studio; poiché per Vilaró l’arte non può essere mera contemplazione, ma deve scuotere, provocare, rompere gli schemi.