«La sublimazione è un apice dove la realtà appare come un lampo: il dionisiaco che si manifesta», osservava Giuseppe Pettinau (Sardara, 1943 – Cagliari, 2023), e a scrutare le sue opere, in mostra fino all’8 dicembre presso Il Ghetto di Cagliari, si ha l’impressione di avere sempre posseduto, recondito e inespresso, un concetto dalla sintassi a tratti spaventosa se inscritta nel placido binario dei nostri esercizi morali. Curata da Roberta Vanali, La forma sublimata – derivante dall’intesa tra l’Ass. Cult. Gesto Segno Disegno, la Coop. Agorà Sardegna e CoopCulture, con il contributo del Comune di Cagliari e della Fondazione di Sardegna – espone sedici opere ad olio che ripercorrono le fasi cruciali del percorso conoscitivo e artistico vissuto, dalla fine degli anni Ottanta ai primi Duemila, dal co-fondatore, assieme a Primo Pantoli e Gaetano Brundu, di quel “Gruppo di Iniziativa” (1961) e direi di rottura che esporrà anche a Roma e Firenze con la curatela di Corrado Maltese.
Ad un’unica sala è così demandato di raccontare Giuseppe Pettinau, instancabile intellettuale che questa vita volle improvvisamente congedare nel gennaio del 2023, non prima di essersi presa il meglio della sua personale fucina spirituale. Qui, gli spessi muri del Ghetto non mitigano lo schematico furore di figure antropomorfe e zoomorfe, che tra dense campiture cromatiche e irriverenti accostamenti plastici si descrivono quasi sussurrando a chi le osserva ricercandovi una fisionomia familiare, un oggetto d’infanzia, magari un personaggio della tradizione popolare o solo un inquietante artificio; sollecitando, quindi, a pensare sé stessi laddove le cornici nulla possono.
Una linearità evocativa, dalla criptica sintassi, contiene le interpretazioni del reale e dell’irreale di Pettinau, che restituiscono l’esito – a posteriori – del connubio fra la tensione critica della grande Scuola sociologica di Francoforte ed il pensiero esistenzialista di Sartre, fondamenti filosofico-speculativi di quello stesso Gruppo 91 (1991) del quale l’artista nato a Sardara, nel Campidano centrale, fu tra i massimi teorici assieme a Attilio Della Maria, Italo Medda, Italo Utzeri e Beppe Vargiu; ad essere precisi, retroterra in cui egli poté meglio acclimatarsi per intendere il fatto artistico al di là dei recinti accademici e di un folclorismo di commiato, che parla di una terra impagliata e più che moribonda: ma è ai vivi che Pettinau si rivolge.
Lo spazio per l’allestimento, pur non concedendo troppa (o alcuna) libertà alla fantasia della curatrice, ne evoca la competenza adempiendo perfettamente alla missione anche percepibile: riattraversare con garbo le tappe di un’esistenza artistica che, dal luminoso drammatismo degli anni Settanta, approda a lidi tempestosi, bagnati e cullati dal torbido mare dell’auto-coscienza in un valzer di visioni ed enigmi: come nota Vanali, «l’artista giunge al riconoscimento del sé mediante un circuito fatto di allegorie, metafore, immagini archetipiche, simboli spesso indecifrabili, codici occulti e figure antropomorfe che lo proiettano in un universo alchemico».
Le forme vitali fissate nella tela da Pettinau, scaturite da quei «gesti pittorici che rivelano i flussi della coscienza» (Vanali), trattengono a fatica un’espressività insopprimibile, costretta entro un’articolazione lineare che, pure nella sua esiguità, permette di situare le impressioni dell’artista nell’articolato dedalo di suggestioni e principi ch’egli apprende, assorbe e postula nell’arco di una vita e forse di molte altre. Fino a eruttare, d’un fiato, nel cuore di Cagliari.