Le provocazioni del contemporaneo tra idolatria e feticismo

Ripercorrendo i principali temi e protagonisti del panorama artistico italiano e internazionale dagli anni Sessanta ad oggi, non si può prescindere dal notare l’indissolubile rapporto tra la società contemporanea e ciò che le opere rappresentano, diventando esse stesse messaggere di quelle tendenze collettive (consumismo, glorificazione di oggetti e immagini) che persistono nel nostro secolo attraverso il culto del “tanto” da intendersi sia in termini di eccesso (iperdecorativismo, cromie squillanti), sia in termini di grandezza (il tanto grande con cui si mira a creare quell’effetto meraviglia persuasivo e accattivante).

Del resto già Umberto Galimberti nel suo interessante libro “I vizi capitali e i nuovi vizi”, aveva messo chiaramente in luce come la nostra società contemporanea fosse invasa da queste tendenze definibili come nuove perché appunto prima del boom economico non esistevano. In ambito artistico questo si traduce in una riflessione fondamentale che consiste nell’idea di opera d’arte come oggetto di puro godimento estetico e l’abitudine collettiva a una lettura puramente formale delle immagini trasformate in nature morte, chiaramente non nel senso caravaggesco del termine, ma in qualità di semplici repertori figurativi. Di esempi se ne possono fare tanti, a partire dai Popists americani ed inglesi (Warhol, Oldenburg, Hamilton) insieme ai paralleli fenomeni in Francia (Rotella, Arman, Spoerri) e in Italia (Novembre, Pisani, Zanichelli), che con opere originali hanno fornito una visione ampia della realtà contemporanea invasa da oggetti sempre più carichi esteticamente e meno concettualmente, facendosi interpreti di un mondo non più fatto di vedute e paesaggi, ma di scritte serigrafiche, immagini e articoli di vendita. 

Cleopatra e Richard Burton | Mimmo Rotella Prezzo di listino fig 1

L’evidenza concessa alla segnaletica, alla differenziazione cromatica, alla decorazione di alcuni prodotti diventa nell’era contemporanea sempre più decisiva per la determinazione di una forma che “semantizzi”, ovvero dia un significato alle sue funzioni, sia dal punto di vista estetico che psicologico. Siamo infatti lontani dalla Bauhaus dove il concetto di forma-funzione era fondamentale, ovvero la necessità di adeguatezza tra la forma dell’oggetto e il rapporto con chi lo usava (si studiava l’altezza d’una sedia, l’illuminazione di un locale, la profondità di un oggetto), dagli anni ‘60 in poi questa obbedienza al rapporto forma-funzione si è andato progressivamente perdendo per puntare alla realizzazione di oggetti volti a stupire attraverso novità formali ed estetiche. Un nuovo rapporto con le cose, dunque, del tutto privo di patetismi, di tabù e spessore critico spiega la comparsa di prodotti “bassi” e dozzinali, non soltanto dal punto di vista tecnico-costruttivo, ma anche d’ideazione spesso banale e con forme esterne arbitrarie scelte proprio in base all’efficacia psicologica, estetica e pubblicitaria.

Damien Hirst For the Love of God 2007 fig2

Alcuni artisti abbandonano la pittura a favore dei metodi di riproduzione a stampa (come le celebri serigrafie di Warhol); altri ricorrono all’assemblaggio di oggetti d’uso quotidiano o beni di consumo. I soggetti ricorrenti delle opere diventano l’oggetto industriale prodotto in serie e/o le fotografie dei personaggi che compaiono tra le pagine dei rotocalchi (fig. 1); queste immagini dimostrano come, da un lato l’oggetto venga trasformato in puro feticcio quale elemento cruciale del panorama quotidiano, dall’altro come lo stesso sia tramutato in puro marchio pubblicitario a sua volta elevato a icona. Nell’era contemporanea siamo approdati a un decisivo affievolirsi della rappresentazione strutturata, istituzionalizzata e facilmente decifrabile. Senza rendercene conto siamo diventati succubi di un ampio materiale iconico con un potere immaginifico così alto che, per l’eccessiva mentalità consumistica, spesso si trasforma in autentico feticcio pronto per essere idolatrato e glorificato.

Jeff Koons Rabbit 1986 fig3

Rispondono a questa logica anche le provocazioni di Damien Hirst (fig. 2) o le esagerazioni di Jeff Koons (fig. 3) che catturano la nostra attenzione in virtù della loro eccentricità, diversità, ironia, ovvero proprio per il loro essere kitsch. Il kitsch è un portato tipico della modernità e la sua nascita come categoria di gusto è strettamente connessa alle dinamiche della mercificazione culturale favorite dal sistema produttivo industriale prima e consumistico poi. Non è raro infatti imbattersi in opere che, accentuando gli aspetti decorativi e caricaturali, puntano a suscitare nell’osservatore curiosità, sorpresa e un voluto disorientamento. Fatto, questo, che comporta anche il poter ironizzare sulla figurazione tradizionale con un kitsch che nell’appropriarsi della patina o dell’effetto dell’arte canonica arriva a esasperare le componenti più pretenziosamente sentimentali e glamour delle immagini secondo un’estetica spesso impoverita nel significato, ma accentuata in maniera iperbolica nei suoi aspetti formali esteriori.

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