Visitabile fino al 4 febbraio 2024, il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato presenta “Diego Marcon. Glassa”, ad oggi il più ampio progetto espositivo mai realizzato dall’artista varesino all’interno di un’istituzione italiana.
Seguito con interesse negli anni dall’oggi direttore del Centro Pecci, Stefano Collicelli Cagol, l’artista – tra i più interessanti del panorama contemporaneo internazionale – è stato invitato nel gennaio 2022 a reinterpretare le dieci sale dell’ala Gamberini, dove ha dato vita a un’esperienza immersiva per lo spettatore attraverso opere nuove, realizzate appositamente per la mostra, o già esistenti.
La ricerca artistica di Diego Marcon, di cui solo pochi mesi fa avevamo visto l’impressionante intervento al Teatro Gerolamo di Milano per la Fondazione Nicola Trussardi, si snoda attraverso l’utilizzo di film, video, animazioni, sculture e pubblicazioni, con cui l’artista indaga i temi universali del senso della vita e della morte adottando, nel linguaggio, quell’innocenza infantile e ambigua che incarna la sua personale cifra stilistica.
Lo si nota a partire dalle due serie di sculture che punteggiano il percorso espositivo, accompagnando di sala in sala lo spettatore, e raffiguranti cagnolini morti, disposti sulle ampie pareti bianche del Centro in atti estremi di pudore e stupore. L’allestimento freddo e rarefatto, che prevede solo poche opere per ciascuna sala, è stato volontariamente ricercato dall’artista al fine di evocare, in chi ne percorre gli ambienti, l’effetto di una sorta di fondale scenico in cui il visitatore si trova immerso, subendone il fascino inquietante.
«Glassa – ha spiegato la curatrice, Elena Magini – è una mostra che possiamo percepire come un intero: un insieme di lavori che si legano l’uno con l’altro e a loro volta con l’architettura del museo, generando un’esperienza sensoriale e visiva inedita».
Non è un caso che la mostra disponga solo di illuminazione naturale, proveniente più o meno direttamente dall’esterno, in modo tale che lo spettatore – o attore – “subisca” nel corso della propria visita anche i cambiamenti atmosferici, immerso totalmente in un ambiente che si rivela ben lontano dall’essere una finzione rassicurante.
Nella sua semplicità, il titolo della mostra, “Diego Marcon. Glassa”, condensa perfettamente l’insieme delle percezioni e dei significati prodotti all’interno del percorso espositivo, così come il suo sdoppiamento e l’ambiguità di fondo. Un ricordo d’infanzia, dolce ma al tempo stesso fastidiosamente appiccicosa, una decorazione “glaciale” che cristallizza quanto va a ricoprire. Quella del Centro Pecci è una mostra che resta “appiccicata” addosso a chi la percorre, portandosi dietro una traccia, un retrogusto, un sospetto.
TINPO, 2006 è una delle prime opere che si incontrano in mostra e il primo film mai realizzato da Marcon: un tipico interno italiano ripreso nel corso di un pranzo di famiglia, dopo il quale due bambini giocano alla guerra con armi giocattolo. Video e suono si bloccano e sovrappongono in glitch ricorrenti a causa dei quali la percezione dello spettatore fa inizialmente fatica a riconoscere l’innocenza della scena, facilmente fraintendibile con un quadro di violenza. Diego Marcon pone infatti al centro della propria ricerca l’immagine in movimento, unendo un approccio analitico, proprio del cinema strutturale, a un’attitudine sentimentale che è invece tipica del cinema popolare e di genere. Ne derivano opere enigmatiche, in cui l’artista impasta abilmente il loop con gli aspetti patetici dello spettacolo, dando vita a una dimensione opaca in cui figure – talvolta post-umane – di empatia e vulnerabilità sono impiegate con ambiguità intenzionale.
Questo senso di inquietudine crescente culmina con Dolle (2023), cortometraggio a chiusura della mostra, in cui due sculture animatronic – papà e mamma talpa – sono riprese mentre contano ad alta voce senza però che i conti tornino mai. Rumori improvvisi, come il tossire dei figli che dormono o il crollo di terra dal soffitto, interrompono il contare dei genitori, i quali tuttavia, dopo pochi secondi, riprendono imperterriti la propria attività in un loop quasi maniacale. Lo spettatore, impotente, resta in attesa di qualcosa che sembra essere sempre sul punto di accadere, ma non succede mai niente e il loop si ripete di nuovo.
“Diego Marcon. Glassa” è una mostra che si fonda sull’attesa. Dalla prima all’ultima sala non si percepiscono né inizio né fine e si è fin da subito immersi – invischiati – in quello che appare come un perpetuo continuum. La mostra stessa, la macchina più grande, costituisce a sua volta un gigantesco loop in cui tutto si gioca sul retrogusto, il sottofondo, la sensazione, il non detto. Uscito da uno scenario a metà tra la favola e l’incubo, lo spettatore lascia il percorso espositivo con sensazioni d’angoscia di cui fatica a spiegarsi il motivo.
Nella rielaborazione di un immaginario legato all’infanzia, Marcon produce uno sdoppiamento nel visitatore che, tornando indietro allo stadio di bambino, diviene in grado di osservarsi dall’esterno, percependo la propria ingenuità e, di conseguenza, desiderando scuotersi fino al risveglio. In questo risiede il talento di un artista come Diego Marcon.