Dire Tolkien è un fattaccio per i pavidi. Significa librarsi in volo, accettare la sfida del temuto altrove e accasarsi in un sogno, laddove luce e ombra non hanno alcun valore. Significa guardarsi indietro, scrutare forse la propria esaltazione giovanile, ricordare che nella fantasia non c’è spazio per il tempo che passa, non preoccupa il rischio, anzi suo nutrimento. Questioni ontologiche, in certo modo intrinseche alla struttura umana, che nessuno come l’autore britannico, fra i più compositi e fertili intellettuali del Novecento, ha contribuito ad illuminare.
A riprendere il filo ci ha dunque pensato la Città Eterna, che fino all’11 febbraio 2024 ospiterà TOLKIEN. Uomo, Professore, Autore, mostra allestita presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea grazie alla curatela di Oronzo Cilli e Alessandro Nicosia. Insieme scienziato e sognatore, creatura spiritualmente e geograficamente universale, Tolkien ha amato talmente tanto il mondo e quelli vissuti da crearne uno tutto suo, sebbene a disposizione di chiunque abbia il coraggio di credere; un mondo fantasy, certo, ma indubbiamente scaturito dal rigore delle sue competenze di filologo e linguista, onorate con la docenza di lingua e letteratura inglese nella prestigiosa Oxford, con sede presso il Merton College.
Un mondo che nasce lontano ma tutto sommato a pochi passi, nella cadenzata quotidianità familiare a cui Tolkien pose le prime questioni sull’importanza dei codici espressivi come l’animalico (animalic), lingua inventata dai suoi cugini Mary e Marjorie Incledon e a cui lo studioso avrebbe dato seguito con la creazione di un suo personale idioma: il naffari; ignorava di certo che le sue opere sarebbero state tradotte in 38 lingue, rendendolo uno degli autori più letti di sempre, e che con forse altrettante si sarebbe confrontato fra peregrinazioni accademiche e vicende creative, a cui non fu umanamente estraneo il periodo speso sul fronte occidentale durante la Grande Guerra.
Stavolta, però, la Terra di Mezzo è Roma, la capitale, incaricata di serbare, nello spazio ampio e luminoso della Galleria, sul viale delle Belle Arti, la più composita mostra sull’autore mai allestita, in grado di raccontare il bambino, l’adolescente, il figlio, il padre, il compagno e il professore grazie alla pluralità semiotica che manoscritti autografi e lettere, memorabilia, fotografie, disegni e immancabili opere d’arte restituiscono dell’universo di Arda e oltre, a testimonianza di come tutti i canali dello scibile umano abbiano parlato di Tolkien e di una impresa intellettuale che, irriducibile entro schemi epistemologici o mediatici, dà conto di uno sforzo mitopoietico formidabile il cui esito è un inestimabile immaginario intergenerazionale e transculturale; non manca, per inciso, l’essenziale sguardo sulla cinematografia illustrato da alcune riproduzioni a grandezza naturale dei costumi di scena utilizzati nella splendida trilogia cinematografica di Peter Jackson, valsa ben 17 Oscar.
La mostra romana, insomma, è un’esperienza affascinante sotto tutti i punti di vista, commovente nell’accostare all’intimità dell’autore, fra scatti di famiglia e oggetti in larga parte inediti come il suo baule da viaggio, e ispiratrice nella poliedricità fantastica del mondo degli Hobbit, porto sicuro nel mare burrascoso dell’immaginazione. La luce e il rigore degli ambienti della Galleria, corroborati dalla compatta solennità del maestoso edificio di ispirazione ovviamente classica, non riescono a mitigare l’irriverenza di simile trasversalità, a patto che la fantasia alberghi nell’animo di chi vi si predisponga.
Per alcuni è un creatore di epopee, per altri un mito autentico, ma in queste righe vuole essere semplicemente John, l’uomo che ha sognato più di tutti in un tempo in cui troppa crudeltà ha cercato di impedirlo con ogni mezzo; un uomo la cui eredità risplende ancora più luminosa in un presente che sembra avere disimparato l’immaginazione per protendersi verso il buio.
Oggi che sembriamo avere disimparato a sognare, il ricordo romano di Tolkien risuona come un grido lacerante. «Se volete trovare qualcosa, non c’è niente di meglio che cercare», scrisse, e solo chi cerca impara a sognare.