Matthiew Barney alla Fondation Cartier, la violenza come metafora e rappresentazione

Intorno agli anni 2000 fui inviata al Guggenheim di New York dal mio direttore Pierre Restany a recensire l’epico ciclo Cremaster di Matthiew Barney. A quei tempi ero inviata speciale negli Usa per la rivista D’Ars di cui Pierre era direttore. Confesso che la mostra mi sembrò alquanto astrusa e non mi fece una grande impressione, ovvero ne sottolineai soprattutto gli aspetti perversi.

Il suo punto di partenza concettuale era il muscolo Cremaster maschile, che controlla le contrazioni testicolari in risposta a stimoli esterni. Il progetto era pieno di allusioni anatomiche alla posizione degli organi riproduttivi durante il processo embrionale di differenziazione sessuale che poi l’artista sviluppo come fase potenziale di qualsiasi creazione. L’assenza di elementi femminili era evidente. Come lo è ancora oggi da quello che ho potuto vedere alla Fondation Cartier con la riproduzione del film Secondary (fino all’8 settembre). Ma con diverse motivazioni ed esiti formali.

Girato nello studio di scultura di Matthew Barney a Long Island City, New York, dove è stato mostrato per la prima volta nella primavera del 2023, Secondary è un’installazione video a cinque canali ambientata nel contesto di un campo da football americano. Per sessanta minuti, undici performer, principalmente ballerini e artisti del movimento con corpi più anziani, tra cui l’artista, sono i protagonisti dell’azione che si svolge sul campo.

La trama di Secondary ruota attorno al ricordo di un incidente avvenuto durante una partita di football professionistico il 12 agosto 1978, in cui Jack Tatum, un difensore degli Oakland Raiders, colpì Darryl Stingley, un wide receiver dei New England Patriots. Stingley rimase paralizzato. Ritrasmesso più e più volte dai media sportivi, questo tragico evento sarebbe rimasto impresso nella mente dei tifosi di football e del giovane Barney, lui stesso quarterback della lega giovanile all’epoca.

Questa nuova opera dimostra la complessa sovrapposizione della violenza reale e della sua rappresentazione, nonché celebrazione, attraverso l’intrattenimento sportivo. Esamina il gioco attraverso un vocabolario di movimento unico sviluppato in collaborazione con il cast di artisti, tra cui il direttore del movimento David Thomson, e Barney. Il risultato è uno studio concentrato sulla fisicità che esalta il corpo maschile e si focalizza  su ogni elemento del gioco: esercizi di allenamento, rituali pre-partita, momenti di impatto e replay al rallentatore. Barney mette in scena questo incidente senza riprodurre esattamente la partita, ma lasciando i giocatori il più delle volte soli, di fronte a sé stessi, oppure di fronte ad un avversario invisibile e senza nemmeno la palla.

L’idea della gravità e della collisione, muove la performance dei giocatori trasportando  la potenziale violenza del gioco in un’altra dimensione dove i corpi diventano sculture in movimento. A primeggiare sono gli oggetti, la fisicità, la materia, la dinamica con cui i corpi entrano in contatto con l’ambiente. Un’opera, quella di Barney, dedicata questa volta alla vulnerabilità del corpo umano.

E legare il suo linguaggio ad esperienze corporee profonde, vissute in prima persona come atleta, amplifica gli aspetti narcisistici e ipertrofici che conducono ad una accentuazione del machismo, extrema ratio quando tutta l’altra dimensione, l’universo femminile sembra inaccessibile e volutamente impraticabile, sia nella sua operatività che nel suo immaginario. D’altronde, qui il fulcro del suo lavoro e ciò che l’ha ispirato, è l’estrema violenza di un gioco estremo come quello del football americano, sinonimo della brutalità fisica, della forza letale, metafora della vita sociale e della politica dei nostri giorni, ma soprattutto della disumanità. Peccato che questa visione si traduca alla fine in autocompiacimento ed estetismo formale, con il risultato di essere fine a sé stesso e di non produrre una vera riflessione sull’attuale stato delle cose.

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