Morandi, il mistero oltre le cose a Palazzo Reale

Mancava da più di trent’anni, a Milano, una grande mostra su Morandi (Bologna 1890-1964) e oggi Palazzo Reale ne presenta una, a cura di Maria Cristina Bandera, che analizza in particolare il rapporto dell’artista con la città. Milanesi sono stati i suoi primi importanti collezionisti (Vitali, Feroldi, Scheiwiller, Valdameri, De Angeli, Jesi, Jucker, Boschi, Vismara) e milanese era la Galleria del Milione, con cui ha stretto un lungo e proficuo rapporto.

La mostra, comunque, ripercorre tutta la sua vicenda. Dopo un incipit in cui si sofferma sul periodo 1913-1918, quando il giovane Morandi si muove tra gli influssi di Cézanne e le suggestioni di cubismo e futurismo, documenta la sua stagione metafisica negli anni dell’immediato dopoguerra. È il periodo in cui l’artista reinterpreta a suo modo la pittura di de Chirico e si accosta a “Valori Plastici”, la rivista romana intorno a cui Mario Broglio, critico d’arte, mercante, editore e a intermittenza pittore, aveva radunato con intelligenza rabdomantica quanto di meglio offriva allora il panorama italiano: De Chirico, Carrà, Arturo Martini e, appunto, Morandi (quest’ultimo, del resto, nonostante la leggenda di uomo appartato, di “monaco della pittura”, che poi gli è stata costruita intorno, appartato veramente non è mai stato. O meglio: lo è stato nel senso più superficiale del termine, se si pensa alla sua concentrazione ininterrotta, alla sua vita tutta dedicata al lavoro, senza distrazioni. Non lo è stato invece nel senso dell’isolamento culturale, perché dai tempi di “Valori Plastici” ai successivi rapporti col Novecento Italiano, fino alla partecipazione a riviste, mostre, Biennali e Quadriennali, è stato sempre pienamente inserito nel sistema dell’arte del suo tempo). Il percorso espositivo si inoltra poi lungo gli anni venti, dedica un approfondimento alle acqueforti dell’artista, ai suoi paesaggi degli anni trenta, agli acquerelli e agli ultimi decenni.

Ma qual è il cuore dell’arte di Morandi? Per tentare di rispondere a questa domanda, per quanto è possibile, pensiamo a quanti fotografi sono stati attratti dal suo studio in via Fondazza, a Bologna: Berengo Gardin, Lionni, Monti, Ghirri, per citare solo i principali. Una spiegazione c’è. Morandi sapeva che non è eludendo la realtà che si può oltrepassarla. Non è eliminando la fisicità che si giunge alla metafisica. Sapeva, insomma, che non c’è contrasto fra oggettività e astrazione, e che proprio la concretezza dimessa di un vaso o di una bottiglia può condurre a quell’oltre che aveva sempre cercato. Questa sua “realtà” ha sempre attratto i fotografi, che spesso hanno compreso il suo mondo più di tanti studiosi. Pensiamo a quanti critici, negli anni fra le due guerre, hanno esaltato, equivocando, un Morandi crepuscolare, “poeta delle piccole cose”. Oppure a quanti, negli anni Quaranta e Cinquanta, lo hanno accusato, equivocando ancora di più, di occuparsi solo delle “piccole cose”, di essere un pittore intimista e non un araldo della rivoluzione, dell’impegno sociale.

Invece a Morandi non interessavano le cose in se stesse, tanto meno quelle piccole. Semmai gli interessava l’invisibile che si può intuire attraverso di loro. Mai avrebbe fatto a meno di un vaso o di una bottiglia: non per una vocazione verista, ma perché aveva capito che lì si manifesta il mistero. Le cose però sono elementi necessari, ma non sufficienti: sono un punto di partenza indispensabile, ma guai se diventano un punto di arrivo.

E non solo. Chi fosse andato a trovare l’artista, in via Fondazza (o a Grizzana), sarebbe stato accolto da un semplice uscio di legno, del tutto privo di vezzi estetici, munito invece di un buon numero di serrature. Perché Morandi non aveva bisogno di recitare la parte del genio bohémien. Entrando, avrebbe visto un letto spoglio, come d’ospedale, il cavalletto tra il tavolo e la finestra, un orologio rotondo e qualche quadro appesi alle pareti. Su una mensola avrebbe trovato il repertorio dei suoi motivi: il vaso a tortiglioni, la zuccheriera, la bottiglia a collo alto, la tazza scanalata. Accanto a questi oggetti, allineati come in una farmacia antica, avrebbe notato i flaconi di trementina e acquaragia, i vasetti di pigmenti e diluenti, l’olio. Poi i libri: qualche classico, come le Prose di Leopardi e pochi altri volumi, ma letti e riletti, come si poteva dedurre dalle copertine sgualcite. E, ancora, avrebbe visto cornici, telai arrotolati, tele bianche già “tirate” e pronte per l’uso, gruppi di matite, alcune ben appuntite, altre ridotte al mozzicone ma usate caparbiamente fino all’ultimo, pennelli con la setola consunta, tubetti schiacciati, stracci macchiati di colore. I Greci chiamavano l’arte “techne”, cioè, pressappoco, mestiere. Morandi dimostra che avevano ragione.

Con questa sapienza pittorica, da ultimo dei classici, l’artista di via Fondazza dipinge cose semplici, insignificanti, che con il suo stile fa diventare metafisiche. Perché, come amava dire, “non c’è nulla di più astratto del reale”.

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