In una Biennale di Venezia quantomai colorata e deliziosamente chiassosa, lei, Nedda Guidi, entra in punta di piedi, con la discrezione che l’ha sempre contraddistinta. Già le opere che al Padiglione Centrale dei Giardini ne preannunciano la personale (alla Polveriera Austriaca di Forte Marghera fino al 24 novembre) sfiorano lo spettatore come un soffio, nel loro minimalismo sussurrato. Sono tre teche appese al muro che ospitano le sue Raccolte di campionatura della metà degli anni Settanta: piccoli dischi o quadrati irregolari di terracotta nuda, colorata con gli ossidi, che portano incise le formule chimiche della loro composizione; frammenti di un concettuale poetico che oggi, all’interno di questa 60° edizione della manifestazione d’arte più importante del mondo, sembrano echi di un passato remoto.
Straniera ovunque lo è sempre stata, questa artista nata a Gubbio nel 1927 e mancata nel 2015. Per la sua condizione di donna omosessuale e per la scelta della ceramica, che nel mondo dell’arte è stata per troppo tempo guardata con un’aria di sufficienza, e accettata a pieno titolo solo se a maneggiarla erano i grandissimi (Picasso o Fontana, tanto per dire: non certo donne). E’ stata anche una militante femminista di quelle con il coltello tra i denti, fondatrice – insieme, tra le altre, a Carla Accardi e a Suzanne Santoro – di quella Cooperativa Beato Angelico che ha fatto la storia del femminismo. Eppure lei, a differenza di molte sue colleghe (e vicina in questo certamente alla Accardi) ha messo da parte il corpo e si è mossa dentro la forma, accarezzandola, domandola, ripensandola, ponendosi nel punto esatto in cui dall’astratto degli anni Cinquanta il mondo dell’arte ha scavallato verso il concettuale installativo degli anni Settanta, senza mai fare troppo rumore e vestendo le sue sculture di una grazia danzante – definizione che certamente lei troverebbe troppo leziosa – che ai colleghi uomini attivi nello stesso campo è mancata completamente. Ma soprattutto ha rivoluzionato la maniera di lavorare la ceramica, diventando nel campo una figura chiave a livello internazionale; sempre defilata, però, dietro le quinte, rifiutando la ribalta.
Inizia con il disegno e la pittura e poi, a Gualdo Tadino, scopre la ceramica, che non lascerà mai più. Come l’indagine sull’uomo – figlia dei suoi studi filosofici – che porterà avanti componendo e ricomponendo le forme in una costante rimessa in ordine della realtà. All’inizio le sue figure hanno forme libere, biomorfe, a tratti floreali – L’angelo rosso, 1958 – e luccicano di una ricca copertura di smalti colorati. Poi l’ordine arriva con la scelta di domare lo spazio nella geometria, di raddrizzare le linee curve. Dopo la prima personale, a Roma, alla Galleria Numero, nel 1964, Guidi decide di ricomporre anche le geometrie in un ordine superiore e comincia a realizzare installazioni di forme modulari ripetute in schemi organizzati, sempre caratterizzati dai cromatismi netti e decisi (neri, rossi e blu) degli smalti.
È con gli anni Settanta che l’artista va abbandonando la maiolicatura per una ricerca sulle colorazioni naturali delle terre, che ottiene a questo punto in cottura, attraverso l’uso calibrato degli ossidi. Nascono così le Tavole di campionatura e poi le scenografiche strutture di solidi a colori tenui che incontriamo oggi a Forte Marghera.
Sotto le volte a mattoni vivi, l’opera di Guidi trova qui un palcoscenico sontuoso in cui la sua voce, per quanto discreta, esce forte e chiara. L’installazione di ventisette pezzi Morandiana (detta anche Vasi rovesciati),incanta lo spettatore con la sua festa di forme irregolari vellutate bianche, azzurro tenue, tabacco, che, nel rovesciamento dell’oggetto, appaiono come tante teste voltate a guardarlo, in una sorta di studio sull’uomo e sull’identità.
A farle da quinte, l’eleganza minimalista dei parallelepipedi spezzati e ricomposti e l’arcobaleno delle forme regolari che si aprono a ventaglio, una accanto all’altra come tessere di un domino pronte a scivolare con un gesto, comunicando un costante senso di irrequietezza della forma, come un ordine pronto a scomporsi nel caos. Una sensazione enfatizzata dalle piccole piramidi irregolari, al centro della sala, acuminate come aculei pronti a ferire chi volesse sfiorarle.
Colpiscono le figure che sembrano dialogare, come gli Speculari o i Modulari, dove il contrappunto tra le superfici bianche e quelle smaltate a colori scuri, e tra gli anfratti ombrosi e le geometrie aggettanti, crea enigmatici ritmi sincopati. Così come una musica cupa e regolare sembra sprigionarsi da opere come Ritmo esagonale, esercito di elementi identici smaltati in un blu così scuro da apparire nero.
Se a qualcuno restasse un dubbio sul fatto che tutte queste sculture, fin nelle loro forme più rigide e geometriche, parlino dell’uomo, lo scioglie Modulare I, con il suo smalto blu acceso, quasi elettrico, spezzato dagli inserti rosso rubino. Qui la sovrapposizione di quattro elementi identici (quattro parallelepipedi blu a cui è stata asportata una sezione a lasciare una ferita triangolare smaltata in rosso) fatta in maniera speculare, ribaltandoli uno sull’altro, crea una serie di contrappunti irregolari dall’andamento ipnotico. C’è chi ci ha visto – per la dimensione quasi umana – la certezza di una figura, il cui genere femminile si individua nelle ferite. Io mi accontento di dire che l’opera cattura lo sguardo, lo seduce, e costringe lo spettatore a girare intorno alla scultura più e più volte nella speranza di individuarne la chiave.