“Tutti gli oggetti “transitori” hanno una cosa in comune: da soli non esistono; il pubblico deve interagire con loro” scrive Marina Abramović a proposito dei suoi trittici verticali, realizzati in occasione di una mostra tenuta a Bruxelles sul finire degli anni Ottanta. Opere da parete composte da minerali, sulle quali i visitatori potevano premere testa, cuore e sesso per scambiare energia.
Appena trentacinque anni dopo, il 18 maggio scorso, l’artista e designer Federica Marangoni, con la curatela della direttrice scientifica dei Musei Civici di Venezia Chiara Squarcina, presenta al Museo del Vetro di Murano un lavoro impegnativo, che comprende un percorso site specific, immersivo, attraverso i suoi oltre cinquant’anni di sperimentazione e ricerca pioneristica su diversi materiali e mezzi tecnologici. Sui quali spicca, ovviamente, il vetro.
Ad accogliere i visitatori all’ingresso del Museo è La Bricola dell’Eurodomus di Torino del 1971. In quella specifica occasione Giò Ponti, con il quale Federica Marangoni collaborava alla rivista «Domus» dal 1963, invita l’artista a partecipare alla propria esposizione sul decoro quotidiano della vita domestica in Europa. La Bricola come opera di apertura alla mostra ON THE ROAD 1970-2024 | Non solo vetro diventa così simbolo di continuità di un percorso della memoria esistenziale sviluppatosi in perfetto sincronismo con la globalizzazione della cultura urbana, che costituisce uno dei maggiori punti d’impatto del pensiero teorico e pratico dell’artista.
Federica realizza per il salone d’ingresso di Eurodomus una grande struttura luminosa composta da elementi tubolari tenuti assieme da un anello metallico, chiaro riferimento alla laguna veneziana ma al tempo stesso anche segno dell’affermazione della natura moderna: una natura urbana, industriale, mediatica.
“L’artista diviene memoria filtrante del concetto di arte del passato. Egli segue i suoi fantasmi. Si affanna e si consuma nella ricerca di un adattamento storico. Ma altri verranno, perpetuando la necessità di ricercare una nuova realtà dell’arte” sono le prime frasi del manifesto che Federica Marangoni redige a proposito di una performance del ciclo Box Of Life all’Artist Space di New York (siamo nel 1978), ma – cosa più importante – rivelano di come l’artista veneziana sia di fatto prosecutrice, nella sua ricerca formativa degli anni Settanta, dell’ideologia energetica globalizzante e del concetto di modernità della cultura urbana incarnati da Yves Klein e dai Nouveaux Réalistes.
La scelta accurata e non casuale e l’affiancamento delle due parole “nuova realtà” presenti nel manifesto ne sono una volontaria dichiarazione di intenti, che rivendica, sotto il profilo fenomenologico, una ben precisa strategia atta a rompere la modalità percettiva cui l’osservatore era abituato, da un lato mettendo in discussione le modalità percettive abituali e dall’altro esprimendo la volontà kleiniana di voler insistere sull’oggettualità materiale dei componenti utilizzati – e dei loro effetti metamorfici – oltre che sui rituali del corpo, come quello alchemico della transustansazione, in cui si percepisce, da parte dell’artista, anche un chiaro riferimento al cammino appropriativo di Arman e di Spoerri.
Vetro, neon, video: a partire da questa triade morfologica di base, Federica prosegue la sua ricerca dell’immateriale nell’arte attraverso il susseguirsi dei decenni, circoscritti all’interno del percorso espositivo e contrassegnati da un’evanescente serie di successivi momenti di fissazione dell’energia nella sua trasmutazione poetica e archetipica, entrando così di fatto – dagli anni Ottanta in poi – nello spazio totale del mito.
E proprio nella Stanza della leggerezza si dispiegano opere concepite dai sopracitati anni Ottanta fino ad oggi, che evocano i concetti di aria, luce e volo. Queste creazioni incarnano una bellezza eterea e sublimano archetipi di memorie antiche, trascendendo il tempo e fondendosi con l’eternità stessa.
Così “la danza inarrestabile della vita continua…”, a detta dell’artista, nella sua ricerca delle immagini-simbolo della quotidianità. Ormai siamo negli anni Novanta e in questo modo la Marangoni entra quasi in uno stato di trance. La maxibobina di cavi elettrici, rappresentati da fili di neon incandescente, con il primo prototipo in vetro di Murano risalente al 1992, diventa metafora di un contesto urbano, ironica icona di una indelebile impronta umana nel suo ambiente naturale. Una sorta di Prometeo portatore d’energia e di luce nella metropoli moderna.
A conclusione di questo excursus che prende forma all’interno dei diversi ambienti del Museo troviamo la grande scultura multimediale Go Up Ladder, esposta nel 2013 a Basilea, in cracked neon rosso e rete metallica, qui installata nel cortile in perfetta continuità con i lavori in vetro di Murano che costituiscono l’elemento organico del suo linguaggio. Tale opera incarna la grande avventura dell’intuizione energetica e tecnologica di un’artista che ha condiviso le scelte referenziali degli esordi e percorso le tappe della simbologia evolutiva umana e umanistica.
Per Federica Marangoni il vetro grezzo o elaborato, con le sue caratteristiche di traslucenza o trasparenza, il suo effetto riflettente e la sua evanescenza, si presta in modo del tutto naturale alla sua espressione concettuale. Il vetro è luce e illusione, trasparente come l’aria e fluido come lo schermo del televisore, è portatore d’illusione con lo specchio, di luce con la lampadina elettrica e il neon, è energia immateriale e trasformazione, mito e memoria. Ha in sé la solidità di un materiale da costruzione e, allo stato grezzo, anche il fascino di uno scarto industriale.
Gli artisti, i creativi, coloro che producono arte come “stimolo chiave” – che si esprima in partiture, sceneggiature, immagini, sculture o oggetti di design per la produzione poco importa – attirano e trattengono la nostra attenzione spostandosi avanti e indietro lungo la gamma estetica. Passando dalla bellezza, all’orrore, dalla maestosità alla morte, usano firme e modelli che definiscono possibili risposte per uscire da una universale condizione di isolamento che provoca depressione e angoscia, o per riscoprire l’alterità dell’altro. Attraverso il lavoro di Federica Marangoni si percepisce il tempo dell’apocatastasi che reintegra in modo puro, attraverso la sua arte, realtà virtuale e naturale: il ritorno ad uno stato armonico e creativo in cui l’elettronica di Nam June Paik si fa baluardo di un sogno umanista che raggiunge uno spirito-spazio-colore interiore uniformemente e serenamente blu, come i dipinti di Yves Klein. Una delle massime espressioni della pittura del Novecento.