“Questa mostra è una incredibile opportunità per poter rendere visibile il mio contesto, aprire le porte a quelle persone che si sentono emarginate, per dire che tutto è possibile”. Con queste parole La Chola Poblete presenta la sua personale al Mudec, dove con il progetto Guaymallén rende omaggio alle sue origini indigene e all’identità queer, esplorando anche l’affascinante fusione tra cultura occidentale e patrimoni indigeni. Una mostra coinvolgente dove le opere raccontano l’evoluzione di identità ibride, facendo luce sui punti di contatto, le contaminazioni reciproche e le resistenze culturali. Un viaggio tra riti, simboli e linguaggi che si intrecciano, offrendo al visitatore una riflessione sull’incontro di civiltà e sull’importanza della propria identità ed unicità.
La Chola Poblete è stata nominata “Artista dell’anno“ di Deutsche Bank per il 2023 ed è la quattordicesima artista premiata dalla banca. La scelta dell’Artist of the Year privilegia lavori che abbiano rilevanza artistica e sociale e sviluppino nuovi punti di vista sul presente ed è proprio in questa prospettiva che si inserisce la mostra Guaymallén. Omaggio al luogo in cui è nata La Chola, la provincia di Menzoda in Argentina, l’esposizione esplora le sue origini immergendosi profondamente nei temi di classe, identità, tradizione e cultura di massa.
“Soy un cuerpo no deseable pero acá estoy” è la frase dipinta acrilico su tela in una delle prime opere che si incontrano. Da poche parole emergono alcuni punti chiave della sua ricerca: una consapevolezza della propria libertà di essere al di là di convenzioni sociali; una denuncia contro determinati standard sociali o aspettative di ciò che è considerato “desiderabile” o meno in termini di aspetto e individualità; una rivendicazione della propria identità, della propria presenza, dello stare al mondo nonostante i giudizi. Un’affermazione forte che mette in discussione la cultura del corpo e della bellezza e invita a riflettere sull’importanza dell’accettazione di sé e sul riconoscimento che ogni essere umano ha il diritto di esistere e di essere apprezzato così com’è.
La Chola Poblete, il cui nome originario è Mauricio Poblete, nasce da una famiglia operaia di origine boliviana. Come viene spiegato nelle sale espositive, nel suo quartiere Mauricio ha affrontato la discriminazione a causa della sua omosessualità e della sua pelle scura. Questo vissuto importante irrompe con forza nei suoi lavori, che diventano come dei manifesti di rivendicazione della propria identità ed essenza.
Nello stesso striscione è inserita anche una simbologia che evoca la musica rock e metal. Questa evocazione non nasce a caso: sono infatti gli anni Novanta quando l’Argentina ha assistito all’ascesa dell’hard rock e del metal, caratterizzati da un’estetica che ha affascinato profondamente La Chola, e che sono citati in maniera incisiva nella sua installazione a parete. La simbologia in tutte le opere è presente e caratterizzante, permette di ampliare il messaggio artistico e di sottolinearne l’importanza, rendendo ancor di più l’opera un mezzo potente di interpretazione e riflessione.
In mostra sono presenti alcune maschere che per La Chola rappresentano un’espressione di performatività e identità fluida. Le maschere così come una serie di opere inedite presenti in mostra, due sculture antropomorfe a grandezza naturale, sono realizzate con una tecnica molto particolare, grazie alla collaborazione con il panificio Davide Longoni, che prevede la cottura in forno di sculture in pasta di pane, un materiale che gode di vita propria e si trasforma in qualcosa di nuovo, sfuggendo al controllo dell’artista.
Maria & papas lays è ad esempio una figura ibrida, con il corpo trafitto da lance metalliche, con il busto e il volto scolpiti proprio in pasta di pane, sorretta da una impalcatura e circondata da patatine fritte, simbolo di un prodotto industriale di largo consumo che rimanda al tema del colonialismo europeo. L’artista infatti nelle tematiche affrontate esamina sempre in modo critico le conseguenze del colonialismo e della supremazia bianca nel suo Paese.
Quest’opera rappresenta un’evocazione della “vergine da vestire”, figura integrante delle processioni spagnole dal XVI secolo e rientra tra quei lavori dedicati al tema mariano. La Vergine è infatti un motivo centrale nell’opera dell’artista, rappresentazione della convergenza tra cultura occidentale e comunità indigene. Spogliate del loro significato originale, le Vergini sono decontestualizzate e acquisiscono nuova forma. La Vergine non è soltanto una figura religiosa cristiana ma un simbolo complesso che può essere reinterpretato attraverso la lente delle culture indigene. Soggetto di acquarelli, dipinti, e installazioni, viene evocata, reinterpretata secondo un immaginario intricato, che passa da rappresentare aspetti più legati alla maternità, alla femminilità, alla sensualità a quelli divini della Pachamama, la grande dea madre, dea della terra, dell’agricoltura e della fertilità.
Di forte impatto visivo l’ultima sala. Qui troviamo rappresentazioni di scene estreme, come la stampa su una maglietta che mostra la stessa artista mentre viene scuoiata oppure una figura femminile che diventa lupa, evocazione della lupa capitolina, che allatta due giovani missionari, rifacendosi all’idea secondo la quale le popolazioni indigene fossero considerate “animalesche” per via della pelle scura. Una visione che ha permeato la storia delle società occidentali, specialmente durante il periodo della colonizzazione, e nata ancora una volta sull’errata convinzione di una superiorità “bianca” e occidentale, e riflesso di un’ignoranza basata sull’incapacità di comprensione di culture differenti.