Venezia “terra che fa fratelli”. Venezia “segno di bellezza accessibile a tutti, a partire dagli ultimi, segno di fraternità e di cura per la nostra casa comune”. Venezia “luogo di incontri e di scambio culturale”. Così Papa Francesco, primo dei pontefici a visitare la Biennale di Venezia, ha definito la città lagunare nel corso della sua apprezzatissima e seguitissima visita veneziana, con tanto di Messa presieduta nella splendida cornice di Piazza San Marco, davanti a più di diecimila fedeli.
Ma è soprattutto la prima parte della visita, quella al carcere femminile della Giudecca, dove Città del Vaticano ha deciso – con bella, anzi bellissima intuizione – di stabilire la sede del suo Padiglione per questa edizione di “Stranieri Ovunque” (un modo perfetto per aderire autenticamente, e non solo a parole, al tema di una Biennale che, proprio per la sua dimensione “altra” e in parte disturbante rispetto ai “soliti giochi” del sistema dell’arte tradizionale), a dare il senso e il segno di questa visita papale. “Ho desiderato incontrarvi”, ha detto il Pontefice alle circa 80 detenute presenti, “all’inizio della mia visita a Venezia per dirvi che avete un posto speciale nel mio cuore”. Non è, dunque, la sua, una “visita ufficiale”, ma “un incontro in cui, per grazia di Dio, ci doniamo a vicenda tempo, preghiera, vicinanza e affetto fraterno”. Soltanto parole, certo, per chi le sente da lontano, dalla propria vita “normale” giustamente e sacrosantemente libera; stille di speranza, di emozione, di calore, invece, per chi le sente dall’altra parte della barricata, da quell’esperienza di alienazione dal nucleo più profondo di sé, dai propri affetti, dalla propria vita autentica che è sempre, e sempre sarà, l’esperienza della carcerazione.
A fare da ciceroni al Pontefice alle opere del Padiglione, tre detenute: una ragazza con tre piercing a naso, bocca e sopracciglio, che scrive poesie nella sua cella, una donna africana mamma di un ragazzo adolescente, e una donna già nonna di tre nipotini. Recluse, che portano il Pontefice in giro per il carcere, a scoprire le opere del Padiglione Vaticano (e lo stesso fanno e faranno, altre detenute, per tutti i visitatori: qua il link a cui accedere per prenotare la visita). Già questo, appare un piccolo miracolo, un capovolgimento di ruoli: a illustrare le opere non sono e non saranno gli esperti, i critici e gli artisti “laureati”, o i responsabili mandati dal Vaticano, ma le stesse detenute. Retorica? No, quando c’è sofferenza, la retorica non ha posto, perché ogni stilla di fiducia e di speranza per chi vive la propria sofferenza e i propri, drammatici, conflitti interiori – avendo un peso di errori da riparare verso la società e verso se stessi –, sono piccole perle di speranza e di possibilità di una redenzione, al di là della quasi sempre inutile e ammorbante routine della carcerazione.
Padiglione del Vaticano: le opere
Ma che opere ha potuto vedere il Pontefice? Quali sono i quadri, le sculture, i video che hanno popolato questo straordinario (nel senso proprio di fuori dall’ordinario) padiglione, curato da Chiara Parisi e Bruno Racine, per il pubblico e per noi tutti che, senza entrarvi, non potremo vedere, di cui non potremo condividere stories e reel su instagram, perché in carcere non si possono portare telefoni né macchine fotografiche? Per una volta, non abbiamo immagini – se non le pochissime ufficiali – di opere da mostrare, da condividere, da far circolare o far diventare virali: questa – lezione che già Gino De Dominicis, tra i più grandi e visionari artisti italiani del dopoguerra, intuì in anticipo, capendo in tempi non sospetti il potere sovrastante e in certi casi alienante delle immagini, rifiutando categoricamente di fotografare e far riprodurre le proprie opere – è forse la più rivoluzionaria delle idee messe in campo da questo padiglione, che un giornale autorevole come il Corriere della Sera, per una svista di un redattore, per qualche ora (poi subito corretto) aveva definito in un suo titolo “vincitore del Leone d’Oro”: bellissimo e felice lapsus, dal momento che forse, a ben guardare, un Leoncino o almeno una menzione la meritava davvero, fosse solo per la portata ideale e simbolica della scelta di portarlo dentro la “casa degli ultimi”, il carcere, spesso isola di negazione dei diritti più elementari dentro alle immense, frettolose e indifferenti città degli shopping compulsivi e dei diritti per tutti, borseggiatori e borseggiatrici comprese.
Ma che artisti e che opere ha potuto vedere, dunque, il Papa, con i suoi occhi, e anche con gli occhi degli altri, degli ultimi, degli esclusi, nel Padiglione Vaticano?
Corita Kent
Intanto, nella caffetteria del carcere, ecco i gioiosi e colorati quadri di una suora (unica artista non più vivente tra tutti quelli invitati al Padiglione), col tempo divenuta famosa col nomignolo – dal tipico linguaggio mediatico – di “suora pop”: l’americana Corita Kent, classe 1918, entrata nell’ordine religioso del Cuore Immacolato di Maria all’età di 18 anni. Sister Mary Corita, come si chiamerà una volta presi i voti, fu effettivamente non solo una delle poche artiste donne del movimento pop, folgorata sulla via di Los Angeles dalle Campbell’s Soup Cans di Andy Warhol (quando le vide per la prima volta alla Ferus Gallery di Los Angeles, disse: “Tornando a casa vedevo tutto come Andy Warhol”), ma fu anche figura celebre, quasi leggendaria, dell’ambiente culturale e artistico californiano degli anni Sessanta e Settanta (diventando amica di scrittori, musicisti, intellettuali), per l’originalità della sua poetica.
La lotta contro i vertici conservatori dell’arcidiocesi di Los Angeles, contrari alle aperture alla società del Concilio Vaticano II, la spinse a lasciare l’ordine nel 1968, e le lotte per i diritti civili divennero il soggetto di molti suoi quadri: negli anni Sessanta, infatti, la sua opera assume sempre più tratti squisitamente sociali e politici, affrontando questioni scottanti come la guerra del Vietnam e le catastrofi umanitarie.
Proprio le tensioni con l’arcidiocesi di Los Angeles la portarono poi a trasferirsi a Boston, dove continuò a dipingere fino alla sua morte, avvenuta nel 1986. I suoi quadri coloratissimi e tipicamente pop portano spesso messaggi sociali, ma anche spirituali, filosofici, religiosi.
Claire Fontaine
Poi, naturalmente, ci sono le opere di Claire Fontaine: è del collettivo italo-francese, costituito da Fulvia Carnevale e James Thornhill, proprio lo slogan che dà il titolo a questa Biennale, “Stranieri ovunque”. Nel Padiglione del Vaticano, due le opere del collettivo ad accogliere i visitatori: un grande occhio trafitto da una sbarra laterale, quasi a ricordare i tanti sguardi negati (di chi vede ma non vuol vedere, di chi non vede, di chi si volta dall’altra parte proprio per non vedere). Titolo, Sensitive Content, come la scritta che appare su un post social quando una foto, giudicata dall’algoritmo potenzialmente “sensibile” (perché contiene scene di violenza o di morte), viene oscurata: da qui lo sguardo “negato”, censurato, dimenticato. “Instagram usa questo avviso con l’intenzione di proteggerci facendoci scegliere di non vedere una certa immagine, così come noi non vediamo le persone che vivono in carcere”, ha spiegato Fulvia Carnevale del collettivo Claire Fontaine.
La seconda opera, campeggia, vibrante di poesia e di empatia, nel cortile dell’ora d’aria, e si accende al tramonto: “Siamo con voi nella notte”. Già slogan politico negli anni Settanta, vergato con una bomboletta a sostegno dei detenuti “politici”, oggi diventa un messaggio potente di vicinanza a chi, nelle lunghe notti dentro le celle, sente e vive sulla propria pelle la solitudine dagli affetti e dal mondo.
Maurizio Cattelan
L’opera di Maurizio Cattelan sul muro esterno della cappella – unica, fra tutte, visibile anche dall’esterno –, raffigurante l’immagine delle piante di due piedi sporchi e polverosi, è una rappresentazione di grande suggestione e di altrettanto grande forza simbolica. L’iconografia dei piedi sporchi richiama istintivamente alcune rappresentazioni sacre, come, naturalmente, il Cristo morto del Mantegna ma anche i piedi, anch’essi sporchi e callosi, dei pellegrini in preghiera dipinti da Caravaggio nella Madonna dei Pellegrini, collocata nella Cappella Cavalletti presso la Chiesa S.Agostino a Roma, o i fedeli adoranti che invocano la grazia alla Madonna del Rosario, nel quadro omonimo conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Ma il palese fuori-scala, la grandiosità dell’immagine messa a confronto con un soggetto “povero” e solitamente tutt’altro che aulico come la pianta di due piedi sporchi, simbolo di fatica, sofferenza e povertà, sono un pugno nello stomaco che ben si allacciano al luogo in cui il Padiglione è ospitato. Il titolo, criptico ma anch’esso d’effetto, Father, richiama istintivamente concetti e immagini diverse: dal Padre nostro, ai tanti padri che hanno attraversato mari e montagne per portare figli e famiglie in luoghi più vivibili, fino ai tantissimi padri che, in prigione, non possono veder crescere i loro figli.
Marco Perego & Zoe Saldana
In una saletta appartata dell’istituto è proiettato il film di Marco Perego e di Zoë Saldaña, moglie dell’artista ma anche attrice di successo (tra i suoi film, ricordiamo Avatar e I guardiani della galassia).
Il racconto, un giorno nella vita delle detenute, tra paura, ansia, speranza, piccole gocce di felicità nella routine carceraria.
Bintou Dembélé
Coreografa e ballerina hip hop francese, Bintou Dembélé è l’unica artista di cui non si vedono per ora le opere, perché condurrà un laboratorio destinato alle sole detenute, e si esibirà per il pubblico in un’unica data a settembre.
Simone Fattal
Lungo un corridoio all’aperto, si trovano delle lastre di lava smaltata, sulle quali l’artista libanese Simone Fattal ha vergato poesie, testi, racconti, tutti scritti dalle detenute. Un invito a guardare la grande, inespressa voglia di comunicare, di lasciare una traccia, di esistere, della comunità che vive all’interno del carcere.
Sonia Gomes
Nella cappella del carcere, d’impianto ottocentesco, ecco sospese le sculture in tessuto, filiformi, aeree, colorate, dall’aria tribale, dell’artista brasiliana Sonia Gomes. Un invito, dice l’artista, a guardare in alto, a non lasciarsi abbattere e soffocare dal senso di angoscia della routine carceraria. Lo stesso invito rivolto da Francesco ai ragazzi e alle ragazze, ad “alzarsi da terra perché siamo fatti per il cielo, alzarsi dalle tristezze per levare lo sguardo in alto, alzarsi per stare in piedi di fronte alla vita”.
Claire Tabouret
In una piccola stanza bianca, ecco invece i ritratti realizzati da Claire Tabouret: sono ritratti intimi, famigliari, che partono dalle foto fornite all’artista dalle detenute stesse, ricordi di quando erano bambine. Un album famigliare che può rappresentare o ricordare l’infanzia di ognuno di noi, l’innocenza perduta, la vita che scorre inesorabile, gli affetti che abbiamo perso, o quelli che ritroveremo.
Il carcere luogo d’arte, il carcere nel quotidiano
Nella sua visita in carcere, Francesco ha ricordato che il carcere è “una realtà dura, e problemi come il sovraffollamento, la carenza di strutture e di risorse, gli episodi di violenza, vi generano tanta sofferenza”. Ma che può anche diventare “un luogo di rinascita, rinascita morale e materiale, in cui la dignità di donne e uomini non è ‘messa in isolamento’, ma promossa attraverso il rispetto reciproco e la cura di talenti e capacità, magari rimaste sopite o imprigionate dalle vicende della vita, ma che possono riemergere per il bene di tutti e che meritano attenzione e fiducia”.
Buone parole, buone intenzioni, buona, anzi, buonissima l’idea di un padiglione perso tra gli “ultimi degli ultimi”, i reietti, i colpevoli, i carcerati, coloro a cui è spesso negata non solo la libertà, anche un minimo di esistenza decente.
I giornali ne parlano, ne hanno parlato. Le persone libere, per un momento, hanno rivolto il loro pensiero anche a questi “ultimi tra gli ultimi”. Ma nello stesso giorno in cui il Pontefice varcava la soglia del carcere della Giudecca, un detenuto di Rebibbia ha scritto una lettera per annunciare uno sciopero. Uno sciopero dentro al carcere: lo sciopero della spesa. La lettera del recluso Giovanni Granieri è stata resa pubblica dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino”: “È un atto di estrema necessità per protestare contro le condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere”.
“Vi scrivo per informarvi che a partire da domani, 27 aprile 2024, avrà inizio uno sciopero nazionale ad oltranza nelle carceri italiane. I detenuti non acquisteranno più la spesa fino a data da destinarsi. Le condizioni delle carceri, già difficili, sono diventate ormai insostenibili e non mostrano alcun segno di miglioramento. Nella mia cella, ad esempio, siamo in sei persone, non abbiamo armadietti per riporre le nostre cose e c’è una sola turca, situata proprio accanto al tavolo dove cuciniamo. Non riceviamo adeguata assistenza sanitaria né cure mediche, non possiamo accedere con continuità a programmi educativi, non abbiamo assistenza psicologica permanente e la Polizia Penitenziaria non riesce a gestire tutte le problematiche relative alla sicurezza”.
Questa lettera, questa lettera drammatica, questo grido d’aiuto, ha avuto un pubblico molto, molto ristretto. Nell’epoca dei contenuti virali su Internet, nell’epoca dell’informazione spalmata ovunque, solo due giornali on line – un piccolo quotidiano di informazione politica e giudiziaria, Il Dubbio, e uno di informazione indipendente, Kulturjam –, hanno riportato questa notizia. Cattelan, Claire Fontaine, il Papa, la Biennale: tutto è notizia, tutto è spettacolo, tutto è condivisione, informazione, meme, viralità. Ma ciò che avviene dietro le sbarre di un carcere, rimane lì, fisso, immutabile, chiuso. Speriamo che, anche questa volta, l’arte nel carcere, il Padiglione nel carcere, non rimangano solo una fugace passerella per gli artisti. Che l’arte possa servire a qualcosa, ancora, e per davvero, in una società sempre più permeata dall’idea che una politica “securitaria”, di continuo inasprimento delle pene e di negazione dei diritti a chi si è macchiato di colpe e di reati, sia la sola via praticabile per gestire problemi endemici di disagio, di devianza, di delinquenza. Ma forse, come pensano i cinici di ogni età, anche questa è solo una vana speranza, e, passata la festa della Biennale, sarà come al solito gabbato lo santo: i detenuti torneranno alle loro solitudini, ai loro drammi, alle loro disperazioni e ai loro suicidi, e gli artisti ai loro vernissage.
Cover photo credits: “Siamo con voi nella notte”, installazione al Museo Novecento di Claire Fontaine in occasione di F-light – Firenze Light Festival, 2020 ph Leonardo Morfini
Ottimo articolo, sono Stefano Armellin, scrivo una nota; la visita del Papa é stata importante ma incompleta é comunque la prima di un Papa, se pensiamo che il Patriarca Roncalli poi diventato Giovanni XXIII vietava ai sacerdoti la visita alla Biennale considerata immorale un passo avanti é stato fatto. Ma Francesco non osa, si ferma lì, dimentica il Padiglione Ucraina e soprattutto quello di Israele chiuso come un carcere con le opere dentro in attesa della fine del conflitto e della liberazione degli ostaggi, ecco, il Papa poteva fare un gesto forte ma é stato a Venezia solo 5 ore. Mentre Cattelan espone nuove opere da Gagosian a conferma che i i suoi piedi alla Biennale sono sempre e solo quelli del mercato. In quanto a me avrei vinto il Leone d’Oro per l’Italia ma si é preferito mandare un Bartolini qualunque. Esclusi i veri Capolavori resta la solita Biennale mediocre dei migliori fra i peggiori, incapaci di dare una svolta alla storia contemporanea. Non dico che le olimpiadi si possano considerare un esempio di purezza, ma almeno c’é un cronometro, o fai un minimo o non ti presenti in pista a correre. Mentre alla Biennale ci va anche Bartolini che i cento metri li fa in due giorni perché dopo cinquanta metri é stanco e giustamente deve passare una notte a riposare con il suo sciacquone sempre in movimento. https://armellin.blogspot.com