Paolo Manazza: “L’arte del futuro? Tecnologica e collettiva. Ma con un piede nella tradizione”

Conosco Paolo Manazza da almeno trent’anni, da quando io lavoravo ad Arte Mondadori (e assieme all’amico Maurizio Sciaccaluga, bravissimo critico oggi purtroppo scomparso, conducevamo appassionate battaglie in favore della nuova pittura italiana, oggi come allora ahimè poco considerata sul mercato italiano e internazionale), e Paolo si muoveva già con grande energia, competenza e disinvoltura in un’area che potremmo definire “di confine”: da una parte, come storico dell’arte con ottimi studi alle spalle e una grande competenza sul mercato dell’arte, che insegna e ha insegnato in diverse facoltà e Accademie; dall’altra come giornalista, sia sul cartaceo (è da anni una delle firme di punta del Corriere della Sera nella sezione dedicata all’economia dell’arte), che sul web: in seguito avrebbe infatti fondato quella che è di fatto la sua creatura, ArtsLife, ancora oggi una delle testate storiche web più riconosciute e seguite. E non da ultimo, come imprenditore dell’arte (è stato tra i fondatori di WopArt, fiera dedicata all’arte su carta). Ma, contemporaneamente, già allora lavorava, come lavora ancora oggi, come pittore.

Pittore “puro”, potremmo definirlo: astratto, poco incline alle contaminazioni con gli altri media, grande conoscitore dell’informel europeo e dell’espressionismo astratto americano, è, come accade a molti altri pittori aniconici, un teorico della composizione “musicale”, quasi spontanea dell’opera: “Quando inizio un quadro”, raccontava in un’intervista recente, “dispongo vasetti di tre o quattro colori. Poi immagino combinazioni cromatiche e forme. E quando inizio a dipingere è invitabile che la tela prenda il sopravvento. È sempre il progressivo stendersi dei colori e delle masse che indica la strada per procedere. I quadri, ma penso valga per opere realizzate su qualsiasi supporto, parlano se li sai ascoltare. E alla fine più che l’esecutore o l’artista ti trasformi nello strumento della narrazione che arrivando dalla tela passa in te e ritorna nell’opera”.

Singolare, allora, che in questo finale d’anno, Manazza sia uscito allo scoperto (oltre che con ottime battute d’asta per i suoi quadri) non con un progetto interamente pittorico, come ci aveva abituato, ma, al contrario, digitale che più digitale non si può. È stato infatti proprio nel mese di dicembre che un quadro di Manazza è stato trasformato in NFT e l’immagine è stata pubblicata sulla copertina de La Lettura, l’inserto del Corriere della Sera. Ma non si è trattato di un NFT qualsiasi, bensì di un’operazione assai più complessa e articolata, che potrebbe, in qualche modo, anticipare le tendenze artistiche del futuro, e magari proprio dell’anno che sta per iniziare: dove l’opera non solo non è più solamente fisica, ma non è neppure fruibile solamente come un oggetto da guardare e basta. Il lavoro presentato da Manazza – e che potrebbe aprire la via ad altre esperienze analoghe in futuro – è infatti assai articolato, e ha visto la partecipazione di un regista che è anche fotografo e sceneggiatore, Ilvio Gallo, e di due musicisti, Steven Piccolo, leggendario musicista, produttore e compositore, e al vibrafono Sergio Armaroli, altro personaggio “di confine”, in quanto artista sonoro, pittore, percussionista e poeta.

L’idea, insomma, è che l’arte del futuro, di cui già oggi possiamo vedere alcuni “assaggi” assai interessanti, sarà un complesso reticolo di competenze, di creatività che si incontrano e si intrecciano, e che potrà essere fruita nei modi meno convenzionali: dal proprio computer, dai grandi schermi, persino dal telefono. E, come ci racconta Manazza in questa intervista, non siamo che all’inizio di un percorso completamente nuovo: presto infatti ne vedremo delle belle. Per capire in che direzione stiamo andando, in questo finale di un anno eccezionale, in bilico tra passato e futuro, non potevamo che chiederlo a lui, che è pittore tradizionale, sperimentatore delle nuove tecnologie, ma anche critico e giornalista. Un osservatore privilegiato, insomma, che, come diceva il testo di una vecchia canzone, ha un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro…

Allora, Paolo, gli NFT sembravano morti dopo lo scoppio della “bolla” degli anni passati, e invece a quanto pare stanno ritornando…

Certo. È vero che in una prima fase c’è stato un eccesso di speculazione e di corsa al rialzo dei prezzi, e questo ha creato uno stop e una frenata significativa degli NFT. Ma il concetto che stava alla base – l’idea che l’arte sia fruibile nei modi più disparati, anche virtuali, e che per il collezionista l’importante sia quindi il certificato di proprietà e non necessariamente l’oggetto fisico –, è tutt’ora valido. Fermo restando, però, che per me l’arte deve basarsi su un forte impianto visuale, altrimenti…

…altrimenti non è più arte?

Di sicuro non è più arte visiva. È un’altra cosa.

E la banana di Cattelan, allora, che ha sconquassato il mercato e la critica proprio in questi ultimi mesi?

La banana di Cattelan è un’idea, non un’esperienza visiva. Io, invece, sono legato all’arte visiva in senso puro. Un’opera, che sia digitale o tradizionale, deve avere le sue basi proprio nell’equilibrio delle forme, dei colori, nella capacità di parlare direttamente ai sensi. Questo non significa essere conservatori, ma riconoscere che l’arte visiva ha un suo linguaggio specifico. Se quell’equilibrio manca, non è arte, è marketing.

Paolo Manazza Untitled 2020 cm 24×30

Eppure l’arte concettuale ha ormai una sua storia lunga, che conosciamo bene…

Certo, ma ripeto, spesso è un’altra cosa dall’arte visiva. L’arte visiva ha un linguaggio specifico che deve essere rispettato. Quando guardi un dipinto o una scultura, entri in relazione con i colori, le forme, le proporzioni. È un dialogo diretto tra l’opera e chi la osserva. Nel concettuale, invece, spesso è l’idea a diventare il fulcro, e l’oggetto perde importanza. Questo può essere interessante, ma non è ciò che a me interessa, per lo meno in quanto artista. E credo che il fulcro della nuova arte, quella del futuro, non sarà quello…

Intendi dire che, anche nel digitale, l’impatto visivo dev’essere centrale?

Assolutamente. Il digitale può ampliare enormemente le possibilità espressive, ma deve partire da una base visiva solida. Lavorare, come ho fatto in questo ultimo progetto, con schermi di nuovissima generazione, ad esempio, mi ha fatto capire quanto il linguaggio visivo possa essere trasformato in una dimensione immersiva, del tutto innovativa, senza però perdere i valori fondamentali della pittura, che per me sono equilibrio, armonia e forza espressiva.

Ecco, ci vuoi raccontare com’è nato il tuo ultimo progetto, finito anche sulla pagina de La Lettura, l’inserto del Corriere della Sera? Di come tu, pittore puro che più puro non si può, sei finito a lavorare con gli NFT?

L’idea di lavorare con gli NFT e con La Lettura del Corriere della Sera è nata tre anni fa, quando abbiamo realizzato un progetto di NFT legato a Ibrahimovic. Era una collaborazione con il Corriere della Sera, ArtsLife, Wrong Theory, ArtN e G-Lor. Undici artisti hanno realizzato altrettanti NFT con protagonista Zlatan Ibrahimovic. Tra questi, c’erano nomi come Giovanni Frangi, Federico Guida, Giuseppe Veneziano con il suo stile new pop, Giovanni Motta col suo approccio iperpop, lo street artist Pao e altri ancora. E poi avevano invitato anche me. Io ero piuttosto restio ad affrontare questo linguaggio come artista, perché ho sempre dipinto e non avevo mai lavorato col digitale. Mi chiedevo: “Cosa ci faccio qua in mezzo?”

E che cosa ti ha convinto, alla fine?

Mi sono ricordato l’osservazione sui colori di Wittgenstein. Quando Wittgenstein dice: “A me non interessa parlare dei colori, a me interessa la grammatica dei colori” (letteralmente: “Non vogliamo trovare una teoria dei colori, né fisiologica né psicologica, ma la logica dei concetti di colore”, ndr). Cioè la relazione che c’è tra di loro. A me interessa questo. E ho capito che questo poteva venir realizzato anche con un lavoro che non era strettamente pittorico, ma digitale. E così mi sono buttato.

E poi, come si è arrivati all’esperimento attuale, quello che tu è stato definito un pezzo “storico”, perché il primo NFT al mondo in 3D senza visori?

Tutto è iniziato ad Art Basel, dove sono stato tra gli ideatori e i protagonisti di una manifestazione organizzata da Etan Genini (imprenditore, amministratore delegato e co-fondatore di Valuart, ndr), chiamata We Understand the Future. Era una piattaforma innovativa che connetteva artisti, giornalisti e professionisti della creatività contemporanea attraverso l’arte e la tecnologia. Lì ho conosciuto un tecnico di Acer che mi ha mostrato un progetto straordinario: uno schermo adattivo con un software innovativo. Praticamente, guardi un puntino rosso sullo schermo, e lo schermo legge i tuoi occhi. Senza bisogno di visori, l’immagine diventa tridimensionale.

Paolo Manazza The Shape of Colours 2004

Quindi una sorta di realtà aumentata?

No, non è realtà aumentata. Qui parliamo di un’opera che si “materializza” in 3D: esce dalla superficie, ti gira intorno. Senza bisogno di visori o altri dispositivi. Ho lavorato su questa tecnologia per sei mesi. Gli schermi, però, hanno costi di produzione altissimi – si parla di 30.000 euro per un grande formato – quindi siamo ancora lontani dalla commercializzazione su larga scala. Ma è evidente che tra 15-20 anni questa tecnologia sarà ovunque, e non solo moltissime opere d’arte saranno concepite e realizzate in questo modo, ma anche tutte le vetrine dei negozi saranno così.

Parliamo di un cambiamento radicale…

Assolutamente. Prova a immaginarlo: cammineremo davanti alle vetrine dei negozi e, semplicemente guardando uno schermo, vedremo immagini tridimensionali prendere vita. E lo stesso succederà con l’arte. Nei musei del futuro, non ci limiteremo a guardare le opere, ma le vivremo davanti e intorno a noi.

E il tuo lavoro in questo campo, come lo collochi?

Quello che ho fatto con La Lettura è stato un primo passo in questa direzione. L’NFT che abbiamo creato contiene un codice sorgente che, con uno di questi schermi, permette di vedere l’opera in 3D. Oggi è solo un progetto, ma tra vent’anni sarà riconosciuto come uno dei primi esperimenti di questo tipo. Quindi, sì, sarà un pezzo di storia.

Ma tu resti comunque un pittore puro. Come concili tutto questo, questo stare in bilico tra tradizione e innovazione, tra pittura e tecnologia?

Sai, intanto io credo che la pittura rimarrà sempre, però dovrà per forza mischiarsi con le nuove tecnologie. La pittura è eterna: può cambiare, può evolversi, ma non morirà mai. Lavorare con il digitale mi ha fatto riflettere molto e ha anche inciso sul mio lavoro. Le mie opere recenti infatti sono più libere, più fluide. Uso colori più accesi, quasi fluo. Mio figlio le definisce “street” o “indie”…

Paolo Manazza The Gardens on the Sea oil on canvas cm 223×178 2008 2016

Ma l’approccio all’opera è simile quando si lavora con il pennello e con il digitale?

No, è proprio un altro lavoro. La cosa più stimolante è che il lavoro non si fa da soli, io per esempio ho lavorato con un regista e due musicisti. Lavorando insieme, ho dovuto insistere molto per far comprendere un punto fondamentale: che non si trattava di lavorare sulla mia opera, ma con la mia opera, costruendo un altro lavoro, un’opera completamente diversa. Abbiamo dovuto partire dal quadro per costruire qualcosa che fosse coerente e rispettoso, ma diverso. Ci è voluto un mese di confronto per trovare il giusto equilibrio.

E l’avete trovato?

Certo. E alla fine, il progetto si è intitolato Che cos’è un confine?. Ecco, proprio questa domanda racchiude il senso del mio lavoro. Il confine non è qualcosa di rigido, ma una linea di tensione, uno spazio di dialogo. D’altra parte il mio compito, come artista, non è quello di fornire risposte, ma di porre domande.

Ecco, a proposito di confine: tu sei sempre stato una figura “di confine”: tra giornalismo e pratica pittorica, e ora tra pittura e tecnologia…

Sì, e penso che questo equilibrio sia uno dei punti di forza del mio percorso. Da una parte, mi ha permesso di avere una visione più ampia: quando dipingo, porto con me il bagaglio del critico e del giornalista; quando scrivo, invece, la mia esperienza da artista mi aiuta a essere più empatico e concreto. Ma allo stesso tempo, non nego che ci siano momenti di tensione: conciliare mondi così diversi non è sempre facile.

Come gestisci questa tensione?

Lavorando con disciplina e lasciandomi guidare dall’istinto. Nell’ultimo anno, ad esempio, ho deciso di delegare maggiormente il lavoro giornalistico ai miei collaboratori, per concentrarmi maggiormente sulla pittura. Ma questo non significa che io abbia abbandonato la mia “anima critica”.

Paolo Manazza Happy lights and shadows 62×84 cm 2021

Tornando alla pittura, hai detto che è eterna. Ma come si evolve nel tempo?

Si evolve con chi la pratica. Le mie opere recenti, ad esempio, come ti spiegavo sono più libere, più vive, più “indie”. Uso colori fluo, c’è una spontaneità che forse prima mancava, alla quale ha contribuito anche il lavoro che ho fatto con il video, con la struttura musicale, il 3D: tutto questo ti cambia anche nel modo di dipingere. Ma il cuore della pittura, quella capacità di comunicare con il colore, rimane immutato. Il mio lavoro si basa su una continua interrogazione del visibile, su ciò che vediamo ma non sempre comprendiamo. È qui che la pittura, ma anche il digitale, diventano strumenti potentissimi: ci permettono di indagare il confine tra il visibile e l’invisibile.

E con il digitale, pensi che questa capacità di indagine possa ampliarsi?

Con gli NFT e le nuove tecnologie, possiamo creare esperienze che vanno oltre i limiti tradizionali della tela. Ma è importante che queste esperienze mantengano un legame con la materialità e con i valori visivi. La sfida è trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione, tra il fisico e il virtuale.

Come vedi dunque il futuro dell’arte?

È un momento di passaggio. Da un lato c’è il disastro, l’ecatombe potremmo dire – l’eccesso di marketing, la superficialità, la banalità diffusa. Dall’altro, c’è indubbiamente un’aria nuova, nuove sfide, nuove tecnologie: tutto questo porterà a grandi cambiamenti anche nell’arte.

Ma quali cambiamenti vedi in particolare?

L’arte visiva, come ti dicevo, resta legata a valori fondamentali come il colore, l’equilibrio e la capacità di trasmettere un’esperienza visiva autentica. Non è questione di essere passatisti o innovatori, ma di imparare a leggere il visibile, non solo a guardarlo superficialmente. Come diceva Barnett Newman, l’arte deve portare oltre il quadro, mostrare l’invisibile a partire dal visibile. Questo è il cuore del mio lavoro. Anche in tempi di crisi, la cultura ha sempre cercato di preservare i suoi valori attraverso due vie: l’enciclopedismo, come luogo che protegge il sapere (pensa alla Biennale di Gioni come un Palazzo Enciclopedico), e il ritorno al classico, che oggi significa ritornare a una pittura viva, sincera, capace di dialogare con il contemporaneo. Ritornare al classico vuole dire dunque ovviamente non rifare le sculture romane o i quadri rinascimentali, ma un ritorno alla pittura come linguaggio universale, capace di recuperare i valori fondamentali dell’arte, come il colore e l’equilibrio, ma reinterpretati in chiave contemporanea.

E tu, come ti collochi, come pittore, in questo momento di passaggio?  Potremmo dire che sei un pittore classico ma con lo sguardo nel futuro?

Potremmo anche dire che sono un pittore fisico, che tra un po’, tornerà in clandestinità.

In clandestinità?

Sai, io ho iniziato a dipingere come un clandestino. Alan Jones, che ha scritto un bellissimo saggio sulla mia pittura, ha scritto una volta che io, negli anni Settanta, invece di andare in clandestinità per fare politica, sono andato in clandestinità per dipingere. E infatti la mia casa era piena di copie di quadri, del Seicento, dell’Ottocento, che al tempo non mostravo a nessuno… era per me una fase di grande approfondimento e sperimentazione tecnica… e, chi lo sa, magari ora tornerò in clandestinità per sperimentare nuove forme d’arte, tra il materiale e l’immateriale.

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