Pietro Ruffo: la vita in un minuto, l’arte in un infinito secondo

Nella creazione artistica esistono riflessioni chiuse che circoscrivono la via tematica in un margine poco radiante, sorta di “maniera” che non esce dal proprio narciso per divenire porta universale; al contempo esistono riflessioni che poggiano su macroevidenze del reale, spazi di manovra estetica che aderiscono al comune sentire con un privato guardare che riposizioni la grande metafora e il suo equilibrio veggente. Pietro Ruffo sente l’evidenza esogena come un mantra d’ingaggio enciclopedico, una spinta ad immergersi nella fattualità degli eventi collettivi con la tenacia artigianale del minuzioso rito creativo. Quando lo conobbi, ai tempi della sua personale allo Studio Pino Casagrande, l’argomento di riflessione riguardava la tragedia cecena di Beslan. Quella mostra mi colpì per la capacità di sintesi, per la potenza sciamanica con cui Ruffo gestiva il dolore senza indulgenza e compiacimento; in seguito ho visto il suo radar etico aprirsi ai temi ecologici del Pianeta, ho visto le opere inglobare Geografia e Storia come stratificazioni di una memoria estetica che mappa la lunghezza del Tempo nella larghezza dello Spazio. 

L’ultimo meraviglioso minuto (notevole il catalogo edito da Drago) è un titolo bellissimo per una mostra che celebra a Roma uno dei migliori artisti italiani della sua generazione. Una personale che parla di Antropocene, di formazione dei pianeti prima della vita, di mondo vegetale e fossile, fino al capitolo in cui la Roma monumentale si fonde con gli immaginari ecologici che hanno determinato una civiltà prima cellulare e batterica, poi animale, quindi umana nei vari stadi che hanno condotto al Sapiens. 

Saggi, film, documentari, romanzi, musica e fumetti parlano sempre più spesso dell’Ambiente, dei disastri in corso e dei plausibili scenari nei prossimi secoli. Grandi filosofi come Bruno Latour, Donna Haraway, Reza Negarestani, Luciano Floridi, Yuval Noah Harari ci indicano visioni laterali e impattanti per una lucida comprensione del misfatto epocale. L’arte che sceglie l’urgenza ecologica si trasforma in una militanza pedagogica, un antagonismo civile che evita lo strato mondano del sociale per un carotaggio nel cluster planetario, nel circuito di una lingua universale che parli di Natura e Cultura, vita e morte, origini e destinazioni, distruzione e rigenerazione…

Ogni opera è un viaggio da fermi nel macrotempo dell’universo: 13.799.750.000 è l’età attuale del Tutto dal momento del primo vagito cosmico, quel Big Bang che ci ha condotti alla metafora dell’ultimo meraviglioso minuto, ovvero, il tempo totale della Vita se rendessimo quei miliardi un solo anno del nostro calendario solare. Ebbene sì, un solo minuto del 31 dicembre in cui l’impossibile è diventato vivente, un lunghissimo istante che oggi accompagna il nostro nuovo rapporto con la religione, la trascendenza, la filosofia e la stessa scienza. Come scrive Rebecca Wragg Sykes: “Se riduciamo i 13,8 miliardi di anni dell’universo a un periodo di dodici mesi, i dinosauri compaiono verso Natale mentre i primi Homo Sapiens arrivano solo pochi minuti prima dei fuochi d’artificio di Capodanno”. 

Scivoliamo tra i tendaggi azzurri di una quinta vegetale che rappresenta il palcoscenico planetario prima della vita umana; circumnavighiamo un muro orizzontale con un gigantesco canyon su cui si stagliano conchiglie e altri fossili; a terra emergono sfere che racchiudono una flora perduta dentro teche che sembrano pozzi di una dimora cosmica; un video, intitolato The Planetary Garden, mette in moto i punti nodali tra origine e scienza, svelando un habitat che contiene il passato nel futuro e viceversa. E poi i quadri delle due sale: una dedicata a Roma – Antropocene Roma – e un’altra – Antropocene Preistoria – sui primi materiali utili per le esigenze umane, partendo dai minerali per giungere agli strumenti tecnici e alle statuette votive. 

Nel vostro navigare dentro il museo giocate con lo sguardo tra panoramica e close-up. La percezione da lontano evidenzia la complessità olistica delle placche a intaglio di Ruffo, come se la distanza fondesse tempo e spazio nella natura di un’immagine ricomposta. Al contempo, il close-up mostra dettagli figurativi che aprono quel puzzle pittorico a mappe, testi, antiche stampe e dettagli vegetali, giocando tra il taccuino da viaggio e i primi libri illustrati, fumetti e film, mirabilia e altre fantasie surreali. Una navigazione sensoriale tra isole tematiche che portano la pittura nel suo splendore meticcio, nella rara capacità di tradurre ogni fonema in un codice intangibile e mai concluso. Se tra qualche millennio una specie aliena dovesse trovare evidenze sepolte della civiltà attuale, i quadri di Pietro Ruffo sarebbero il giusto connubio tra estetica e storia: per raccontare le nostre città, le nostre abitudini e il nostro inguaribile afflato poetico.

Se la vita possiamo idealmente condensarla in quel fatidico minuto, l’arte diventa il secondo che contiene tutto il tempo nella sintesi di un gesto infinito e trascendente. Dalle pitture rupestri a Pietro Ruffo si addensa la totalità dei segni in una forma quantica che interroga le domande universali, scivolando sopra mode e tendenze, agendo come corrente perenne e invisibile, captando l’inizio del tutto nella parzialità di ogni frammento iconografico

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