Giudicare un libro dalla copertina. Da sempre metafora di una lettura superficiale della realtà (“non giudicare un libro dalla copertina” da che mondo e mondo significa “non giudicare dalle apparenze”), l’arte del criticare un libro (ma, perché no, anche una mostra, un album musicale e persino una bottiglia di vino) unicamente da ciò traspare dalla sua copertina è diventato in realtà un esercizio critico del tutto “al passo con i tempi”, in una società sempre più basata sull’apparenza e sul culto dell’immagine, oltre che scandita da tempi di riflessione sempre più brevi e sincopati.
Oggi, nella società dell’immagine e dello spettacolo, la copertina – di un libro, di un film, di una mostra – è infatti diventata sempre più importante e sempre più determinante nella scelta di acquisto da parte di un lettore. Non è un caso se, quando abbiamo fatto per la prima volta questo esercizio di critica “non convenzionale”, alcuni mesi fa, con i 12 romanzi arrivati nella semi-finale del Premio Strega (Premio Strega, i 12 finalisti giudicati dalle copertine), le nostre scelte si sono poi rivelate sorprendentemente profetiche: come abbiamo spiegato nel secondo articolo dedicato all’argomento (Premio Strega, nella sestina dei vincitori le copertine più belle. Vi spieghiamo il perché), abbiamo scoperto che i titoli arrivati nella sestina dei finalisti corrispondevano proprio a quelli di cui noi avevamo segnalato le 6 migliori copertine; e che il libro vincitore, L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi), aveva ricevuto, non a caso, uno dei voti più alti, con la sua copertina su cui campeggiava un’immagine particolarmente azzeccata della fotografa urcaina Diana Lyovkina, nota per i suoi scatti evanescenti, sospesi in un altrove senza tempo, molto coerente rispetto alla trama “fragile”, inquieta e dai ritmi adolescenziali del romanzo.
Ecco dunque un nuovo esperimento di “critica delle copertine”, questa volta applicato ai sei romanzi finalisti del Premio Campiello. Qui di seguito, in rigoroso ordine alfabetico, vi presentiamo la critica, in poche righe, di ognuno dei libri finalisti visto dalla sua copertina.
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio).
Indiscutibilmente azzeccata la copertina del romanzo di Antonio Franchini Il fuoco che ti porti dentro. L’autore dello scatto è Charles H.Traub, fotografo americano celebre per le sue rappresentazioni dell’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Il volto di una ragazza, sullo sfondo di una città che la didascalia ci informa essere Napoli nel 1985, ci guarda con aria sbarazzina e strafottente, fumando una sigaretta, segno di tempi così vicini eppure così fatalmente lontani, nei quali il tabacco non era ancora considerato tabù. Napoli è anche la città dove è nato anche Antonio Franchini, l’autore del romanzo, e quella in cui è ambientata la storia. La luce, i colori, la “cazzimma” che traspare dallo sguardo della ragazza e in generale dall’atmosfera dello scatto sono il viatico perfetto per un romanzo che Antonio D’Orrico ha già ribattezzato “il libro dell’anno”, ultimo baluardo di “un pianeta dove la letteratura è ancora duello all’ultimo sangue, corpo a corpo all’arma bianca dell’autore con sé stesso”. Al pari degli scatti di Letizia Battaglia a Palermo, col loro carico di umanità e d’impertinenza dietro cui sembra che traspaiano l’aria e gli odori delle stradine contorte della Vucciria o di Ballarò, anche le foto di Traub a Napoli e nel Sud Italia appaiono come la rappresentazione perfetta di un mondo in via d’estinzione, per il quale non riusciamo a non provare già una sorta di struggente nostalgia.
“Le immagini che produco si focalizzano principalmente sul tempo che passa, sullo spazio, e sugli eventi che accadono”, ha detto Traub in un’intervista. “Sono convinto che le nostre vite siano già tanti racconti, molto più interessanti di tutto ciò che può essere costruito – o ciò di cui cerchiamo di appropriarci”; e l’Italia degli anni Settanta e Ottanta, “un paese decadente, che stava cercando di nascondere le sue difficoltà economiche, il suo declino, e che viveva nella nostalgia della gloria passata” è stata per lui “una fonte inesauribile di ispirazione”: “c’erano sempre eventi, aneddoti da fotografare”.
La storia a cui Traub accenna, quasi come un sottotesto visivo, nello scatto che campeggia su questa bellissima copertina, ha il sapore di un felice preludio alle storie che Franchini, raffinato indagatore della nostra memoria collettiva e della nostra perduta giovinezza, promette di portare alla luce nel romanzo. La quarta di copertina, a cui trasgredendo alla regola non abbiamo resistito di gettare un’occhiata, racconta la vicenda di Angela, una donna “dal carattere impossibile”, “che incarna in maniera emblematica tutti gli orrori dell’Italia”, “eroina eccessiva e imprevedibile, capace di alternare toni drammatici e ossessivi a momenti decisamente comici”. Franchini, editor navigato oltre che romanziere di successo, sa quanto contino titolo e copertina per il successo di un libro. Sul titolo, concordiamo con D’Orrico, che l’ha definito “sbagliato” (troppo aulico e letterario, in effetti, per rimanere infisso nella memoria del lettore, e anche nella nostra). Sulla copertina, non possiamo che applaudire alla scelta dell’editore.
Voto: 9
Federica Manzon, Alma (Feltrinelli)
L’immagine di copertina del romanzo di Federica Manzon è di Andrea Serio. Illustratore raffinato, autore di un’infinità di copertine di romanzi, di riviste, dischi e manifesti, oltre che graphic novelist e fumettista, Serio è riconosciuto e riconoscibile per uno stile essenziale dai toni spesso intimistici e poetici, che risente molto della lezione di Lorenzo Mattotti, di cui è stato allievo. Le sue illustrazioni hanno la capacità di offrire punti di vista stranianti, dal tocco magico e favolistico, a luoghi e situazioni quotidiane, personaggi perennemente immersi in un proprio mondo interiore.
Per il romanzo di Federica Manzon, Serio ha realizzato una copertina dotata di un’eleganza minimalista, dai toni tenui e dalla luce calda che ricorda certe atmosfere da Scuola Romana, realizzata a pastello, che rappresenta una veduta di una via di una cittadina italiana (presumibilmente Trieste, dove è ambientato il romanzo di Federica Manzon) che scende fino a un vasto specchio di mare. Al centro, s’incrociano un ragazzo e una ragazza, presenze mute di una storia di cui non si riesce a intuire quasi nulla. Criptica quanto il titolo del romanzo, che con il solo nome di “Alma” – evidentemente la protagonista – non lascia trasparire nulla né della trama né dell’ambientazione, l’immagine di Serio cerca di giocare soprattutto sulla delicatezza e sulla leggerezza, come a evocarci memorie nascoste o semidimenticate. Così leggera da rivelarsi, però, un po’ troppo evanescente e dimenticabile. Ai due protagonisti manca la plasticità e la personalità che contraddistingue solitamente i personaggi delle sue illustrazioni, nell’insieme l’immagine manca di verve e di personalità. Peccato, perché dall’autore (della copertina) ci saremmo senz’altro aspettati di più.
Voto: 7 –
Michele Mari, Locus desperatus (Einaudi)
Ogni autore ha i suoi tic, le sue manie, i suoi punti di riferimenti mentali. A volte, ha i suoi complici e compagni di strada con i quali svelare ai lettori brevi frammenti del proprio mondo intimo e segreto, traducendolo in letteratura, in poesia, a volte in immagini. Michele Mari coltiva da tempo un rapporto di collaborazione con un fotografo roveretano, Francesco Pernigo, con il quale ha realizzato, una decina d’anni fa, un misterioso libro-enciclopedia incentrato su se stesso, sul proprio mondo, sui propri oggetti (è notoriamente un collezionista compulsivo e ossessivo) e sui luoghi in cui ha abitato, Asterusher. Autobiografia per feticci (definita da alcuni media “uno dei casi editoriali più discussi del 2015”).
È una storia di oggetti, di feticci appunto, di elementi simbolici che costituiscono i passaggi-chiave del proprio paesaggio interiore. Le fotografie di Pernigo, che li ritraggono in maniera anodina, “tutte di interni e di oggetti ripresi in primi o primissimi piani, bagnati da una luce morbida e radente”, come sono descritte in una delle tante recensioni sul web, conducono il lettore alla scoperta del retroterra culturale e visivo dell’autore. Oggi, una di queste foto costituisce anche il soggetto principale della copertina del nuovo romanzo di Mari, Locus desperatus. Si tratta della foto di una scatola che raccoglie le targhette identificative di minatori, scovate in una miniera in Val D’Aosta durante una lontana vacanza dall’autore (che è anche, si capisce leggendo la quarta di copertina, una sorta di alter ego dell’autore, con la sua mania un po’ ossessiva per gli oggetti che accumula nella sua abitazione, il suo locus desperatus appunto). Una copertina essenziale, scarna, pulita, molto einaudiana, un po’ criptica con la sua sfilza di targhette (che a prima vista potrebbero appartenere a un qualsiasi classificatore o mobile o schedario), per rappresentare un libro che, ancora una volta, ci parla di una casa-antro magico, di accumulazioni di oggetti, di feticci con i quali l’autore o il suo alter ego finiscono per identificare se stessi e la propria vicenda umana, e che finiscono per impossessarsi, come oggetti magico-rituali, della personalità del protagonista e forse anche dell’autore. Copertina, dunque, che appare estremamente coerente con il contenuto del libro, e in perfetta corrispondenza con la storia della casa editrice.
Voto: 8
Vanni Santoni, Dilaga ovunque (Laterza)
Una copertina facilmente fraintendibile. Omini che ridono e che chiacchierano tra loro, che solo a uno sguardo più attento si rivelano essere dipinti su un muro (per la precisione a Parknajol, alla periferia di Kathmandu, ci riferisce la bandella: sono scattate dal fotografo Frank Bienewald e appartengono a uno stock di immagini di Alamy foto, facilmente rintracciabile sul web). Potrebbe essere tranquillamente l’immagine di copertina di un romanzo satirico, di una storia di avventure folli, divertenti e picaresche, e di conversazioni surreali tra personaggi bizzarri e un po’ grotteschi. Invece si tratta nientemeno che di un romanzo-saggio: è un’indagine non convenzionale sul fenomeno del graffitismo illegale: un romanzo che, ci avverte sempre la quarta di copertina, “ci porta tra gallerie d’arte e depositi dei treni, con il cappuccio della felpa tirato su e un paio di bombole nello zaino, a sentire l’odore della vernice e l’adrenalina che sale improvvisa, muovendosi nel buio per mordere la carne della città e rivendicare il diritto di esistere in uno spazio urbano dominato dalle logiche del profitto”.
Benché piacevole e moderatamente accattivante, coi suoi colori accesi e le sue facce buffe, la copertina svia il lettore dal vero senso del libro. Un ragazzo che volesse capire di più su origine e sviluppi del writing, seppure attraverso l’inusuale formula del romanzo-indagine, o romanzo-saggio che dir si voglia, difficilmente sarà attratto da una copertina che fa immaginare tutt’altro; il titolo poi, Dilaga ovunque, senza neanche un sottotitolo a spiegarne il senso, contribuisce ad allontanare eventuali lettori interessati al fenomeno.
Voto: 5
Emanuele Trevi, La casa del mago (Ponte alle Grazie)
In suo precedente romanzo “a due voci” del 2007, Invasioni controllate, Emanuele Trevi aveva “portato in scena”, attraverso il meccanismo di un dialogo serrato padre-figlio, l’esistenza, pubblica e privata, del padre, Mario Trevi, psicanalista e pioniere degli studi junghiani in Italia (oltre che ex partigiano e amico di scrittori e di artisti), scomparso nel 2011 a 87 anni. Oggi, nel suo nuovo romanzo La casa del mago, è sempre il padre dell’autore, Mario, il personaggio-chiave che apre al figlio le porte della comprensione dei meccanismi dell’esistenza, delle relazioni, del rapporto tra esperienza individuale, storie famigliari e grande Storia.
E, come nel libro precedente, sempre a un disegno del padre è affidata la grafica della copertina. Pulita, elegante, impeccabile nel suo gioco di due soli colori, il rosso del tratto del disegno e il bianco dello sfondo, la copertina del romanzo di Trevi non è paragonabile a niente, non rincorre significati apparenti, non offre chiavi di lettura o anticipazioni di quello che sarà il contenuto o la trama del romanzo: eppure, nonostante la sua oggettiva cripticità, ha una capacità seduttiva, nella sua sintesi ed eleganza formale, che attrae e colpisce dritto al cuore. Lo strano mandala-sole che campeggia in copertina, che ricorda la scrittura automatica dei surrealisti o i ghirigori che facevamo quando eravamo al telefono (oggi non più, accompagnandoci il telefono ovunque andiamo e non avendo dunque più un tempo in cui stare fermi a far qualcosa con le mani), appare come il motore immobile di un romanzo che incuriosisce e colpisce già fin dal titolo, rubato o preso in prestito, va detto, alla denominazione che fu già della casa-laboratorio del futurista Depero a Rovereto, immortalata dallo stesso artista in un celebre quadro del 1920 chiamato appunto La Casa del Mago, dove il laboratorio dell’artista diviene fucina di idee e di invenzioni formali e non mero luogo di lavoro.
Voto: 9 e ½
L’articolo sul romanzo vincitore, Alma di Federica Manzon, lo trovate qua: