“Per me la fotografia era un modo diverso di capire, di entrare nel mistero dell’umano”
Lisetta Carmi
La Fondazione Sabe per l’Arte – punto di riferimento per la promozione dell’arte contemporanea a Ravenna – ha inaugurato il 5 ottobre scorso la mostra Fotografia e femminismi. Storie e immagini dalla Collezione Donata Pizzi. Curata da Federica Muzzarelli – una delle più attive studiose della relazione tra femminismo e fotografia – l’esposizione è realizzata con la collaborazione del Gruppo di Ricerca FAF dell’Università di Bologna.
Oggetto centrale della ricerca è il carattere della fotografia come mezzo rivoluzionario, strumento in grado di dar voce alle nuove identità e ai femminismi delle autrici che la adoperano. La fotografia istantanea, manipolata, in primo piano, grandangolare, irriverente, descrittiva, oggettiva diviene strumento di re-identificazione, re-invenzione e rivendicazione.
Il corpus fotografico proviene dalla ricchissima Collezione Donata Pizzi e si incentra sulla produzione italiana delle fotografe che operarono negli ultimi cinquant’anni. La collezione tenta di combattere l’oblio a cui storicamente sono soggette le artiste donne, “che è sì il risultato” come scrive Maria Antonietta Trasforini in un suo saggio “della non appartenenza a reti sociali forti […] ma anche l’effetto più complicato di un mancato auto-riconoscimento o di una debole e conflittuale elaborazione e costruzione di memoria”. Il rischio è che definendo ancora la fotografia appannaggio della cultura maschile, ci si dimentichi dell’azione parallela delle donne. L’intenzione di Donata Pizzi è, dunque, rivendicarne la presenza all’interno della cultura fotografica italiana. È un problema di dimenticanze e “l’evidente disattenzione da parte delle istituzioni pubbliche, dei collezionisti e della critica” ha spinto Pizzi a preservarne la memoria.
Negli spazi straordinariamente contemporanei della fondazione rivivono le fotografie di Lisetta Carmi, Lucia Marcucci, Paola Mattioli, Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna), Liliana Barchesi, Martina della Valle, Giulia Iacolutti, Alessandra Spranzi, Moira Ricci e Alba Zari. I nuclei tematici attorno a cui si dipanano i racconti visivi sono le sezioni: Album di famiglia, Identità di genere, Stereotipi e spazi domestici, Ruoli e censure sociali.
L’esposizione di Ravenna ripercorre in maniera cronologica i cambiamenti sulla comune percezione sociale della donna e del suo ruolo culturale, attraverso il mutamento che attraversa l’Italia dal dopo guerra in poi. Questo passaggio si è attuato mediante la narrazione delle fotografe testimoni dei fervidi anni ’60-’70 – gli anni, tra l’altro, di Rivolta Femminile di Lonzi e Accardi – che si intrecciano con la visione contemporanea offerta da Della Valle, Spranzi e Zari, tra le altre.
La fotografia diviene medium privilegiato da parte delle donne – già a partire dalla sua nascita – in quanto strumento marginalizzato rispetto al sistema dell’arte. Una sorta di comunanza basata sulla discriminazione e la separazione dalle sfere dell’azione tradizionale accomunava la fotografia e le donne: la possibilità di agire, in quanto dal margine, nella libertà della loro solitudine sociale.
La fotografia diviene strumento di narrazione del sé e possibilità di narrare l’altra – coincidente con il femminile plurale – come soggetto identitario e rivoluzionario. È uno strumento di potere dato alle donne, o meglio preso dalle donne, per riconquistare l’idea del sé e del proprio corpo, a lungo prerogativa e proprietà del male gaze.
È un lavoro individuale e collettivo, personale e politico. In tal senso, scrive Emanuela De Cecco in un suo saggio: “l’individualismo che connota il lavoro delle artiste che si affacciano alla scena dell’arte alla fine del decennio scorso non è però espressione di narcisismo, ma corrisponde piuttosto all’esigenza di stabilire in primis il proprio punto di vista, i propri provvisori confini”.
Cariche della filosofia di cui sopra le fotografie in mostra sono atti di coraggio e libertà; ne sono un esempio la serie Travestiti di Lisetta Carmi, le cianotipie di Casa Azul di Giulia Iacolutti che ritrae cinque donne trans detenute in un carcere maschile di Città del Messico. E ancora la decostruzione del ruolo sociale operata da Le casalinghe di Liliana Barchiesi, le Pin Up di Lucia Marcucci, il The Post.it Book di Martina della Valle che indagano le censure e i ruoli sociali tessuti sul corpo delle donne ad opera della cultura patriarcale.
A completare il clima di rivendicazione femminista degli anni in oggetto sono le pubblicazioni e cataloghi esposti che tracciano la storia progettuale della Collezione Donata Pizzi e la riproduzione del pionieristico libro femminista del collettivo “Ci vediamo mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo”. Quest’ultimo mirante alla decostruzione dell’unicità dello sguardo maschile e della semantizzazione del corpo in relazione ad esso, proponendo una posizione altra in cui risignificare il sé a partire dal sé soltanto. E la fotografia gioca un ruolo fondamentale, in quanto strumento preferenziale; poiché come afferma Muzzarelli in un’intervista: “la fotografia è un dispositivo istintivamente femminista, perfetta per rivelare il nascosto e dare forza ai desideri e agli immaginari dimenticati”.