Mentre Roma si prepara a ricevere otto sculture monumentali di Fernando Botero, in attesa della grande mostra, curata dalla figlia Lina, che si terrà a Palazzo Bonaparte dal 17 settembre 2024 al 19 gennaio 2025 (ne parliamo in questo articolo), pubblichiamo il testo della lectio magistralis che Vittorio Sgarbi ha tenuto sull’opera del grande pittore colombiano, scomparso il 15 settembre scorso, in occasione della manifestazione “Mi querida Pietrasanta“, promossa da Le Botteghe di Pietrasanta.
Ho avuto l’onore e il piacere di essere stato il primo critico italiano a presentare una grande mostra di Fernando Botero, a Forte Belvedere a Firenze. Era il 1991: la mostra ebbe un grande successo, e da allora i miei rapporti con lui divennero fraterni, e da quel momento lo rividi spesso, sia in Italia, a Pietrasanta, che in Colombia, dov’era nato. Lo avevo conosciuto pochi anni prima, grazie a un altro formidabile personaggio che si chiama Ezio Gribaudo. Dico ‘si chiama’, benché sia scomparso due anni fa, perché per me continua a essere vivo, dal momento che era un uomo di grandissima vitalità e di grande intelligenza e generosità. Gribaudo era un pittore, un artista, ma uno di quegli artisti che, anziché essere invidiosi del successo degli altri, ne sa apprezzare e valorizzare le qualità. A quel tempo, Gribaudo dirigeva una collana di monografie di artisti per la Fratelli Fabbri Editori (lo stesso editore che, pochi anni prima, aveva portato i grandi capolavori nelle case degli italiani con “I maestri del colore”, collana innovativa che insegnò a tutti, a prezzi popolari, ad amare i grandi protagonisti della pittura di tutti i tempi). Gribaudo voleva raccontare la migliore arte del suo tempo, così propose a Botero di realizzare una monografia sul suo lavoro (qua il racconto della figlia, l’editrice Paola Gribaudo, ndr), e ne divenne amico. Fu lui a presentarmelo, e così andammo insieme a trovarlo in Colombia, dove Botero era idolatrato come il primo pittore del mondo, e in qualche modo lo è stato, essendo conosciuto e riconosciuto da chiunque. Era, si può dire, il Raffaello della Colombia: classico nelle forme, classico nel linguaggio, classico nella poetica, anche quando l’arte sembrava andare in ben altre direzioni con l’arte povera, il concettuale, i video, le performance. Questo lo ha reso amatissimo a livello popolare ma anche odiatissimo da chi, all’interno del sistema dell’arte, ha avuto minor successo e minor fortuna di lui, oltre che da quei critici che vorrebbero sempre decidere cosa sia veramente “contemporaneo” e cosa non lo sia, spesso senza avere reale conoscenza e solide basi su cui poggiare le loro incerte tesi.
Nonostante il grandissimo successo commerciale e la fama mondiale, dunque, Botero fu sempre osteggiato dal sistema dell’arte, perché non in linea con la pratica e il pensiero delle avanguardie. Botero rappresentava infatti in qualche modo l’esatto opposto di quello che il Novecento è stato – plasticamente rappresentato, nel 1917, dall’orinatoio di Duchamp, e arrivato al suo culmine all’inizio degli anni Sessanta (quando Botero non era che al principio della sua avventura di artista) con la Merda d’artista di Piero Manzoni, due momenti in qualche modo coincidenti nella deriva “escrementizia”, durata oltre un secolo, della cosiddetta arte contemporanea.
Questo sistema ha trovato la sua rappresentazione più alta in quel film straordinario che è Le Vacanze intelligenti di Alberto Sordi, in cui si vede la moglie di Sordi che viene scambiata per una scultura perché si siede un momento a riposare su una poltrona durante la visita alla Biennale, piena di opere assurde e senza senso: qua, con un colpo di genio, con un’intuizione straordinaria di taglio satirico, viene messo in discussione il senso stesso dell’arte contemporanea, fatta di continue e incessanti provocazioni e di innovazioni. Botero era estraneo a tutto questo. Lui è stato l’ultimo artista classico ‘italiano’, benché non fosse italiano di nascita, ma da sempre ispirato, nella sua pittura, dalla grande tradizione della pittura italiana, che va da Giotto a Piero della Francesca a Raffaello fino a Botticelli. Nessuno, infatti, come lui, dopo l’aristocratico Balthus, ha rappresentato l’orgoglio della grande tradizione classica italiana nella contemporaneità.
Non è un caso, infatti, che Botero abbia amato e vissuto così tanto a Pietrasanta, e non è un caso che si identifichi perfettamente con la dimensione universale di Pietrasanta, che, anziché limitarsi a rimanere una cittadina toscana – una magnifica cittadina toscana, ma legata solo alle sue mura e al perimetro dei suoi confini –, è invece diventata un luogo universale, un luogo dello spirito. Perché Botero, lo dirò senza timore di essere smentito, appartiene a Pietrasanta, appartiene all’Italia: cittadino e artista di Pietrasanta, Botero è un pittore eminentemente italiano. Pietrasanta è il luogo della sua vita, e il luogo dove riposa, assieme alla sua amata sposa, la brava e bellissima pittrice e scultrice Sophia Vari.
Del resto, Botero non aveva intenzione di fare nient’altro, con la sua arte, che rappresentare il suo amore per l’Italia. È stato un avamposto della resistenza della pittura e della figurazione sotto la dittatura delle avanguardie. Per me Botero è stata una sfida, la sfida di un’arte che non solo non apparteneva, ma era anzi lontanissima da quel côté artistico che voleva disfare la forma, disfare la figura, disfare l’arte da ogni orpello, da ogni simbologia e da ogni forma di narrazione, fino a renderla inesistente, inutile, cadaverica. Quell’arte, l’arte della negazione, della non-forma, è un’arte che in qualche modo rappresenta l’infelicità, il cinismo, il nichilismo dell’uomo contemporaneo. Botero, al contrario, ha sempre rappresentato la felicità dell’uomo, e in questo è stata la sua forza. Il senso di tutta l’opera di Botero è la felicità. La felicità è quella cosa che non sai che cosa sia, è un’emozione, un sentimento, un modo di essere. Botero è il pittore della felicità, della vita vissuta e goduta. È il pittore che guardiamo per godere delle sue storie, delle sue forme, della bellezza delle sue creazioni. Botero è apparentemente facile, è popolare, è narrativo, e proprio per questo è stato amato dal pubblico e osteggiato dalla critica.
Nei suoi quadri, Botero raccontava infatti la vita, gli aneddoti, le storie, gli amori, gli incontri di ogni giorno. In pittura e nella scultura, ha creato un linguaggio immediatamente riconoscibile, ingrossando le forme, rendendo la sua arte immediatamente identificabile e memorizzabile. Ma, dietro all’espediente dell’ingrassamento, della voluminosità dei suoi personaggi, ci sono due cose fondamentali: uno è il rapporto con la grande arte del Rinascimento, con la classicità, che s’intravede sempre nella sua arte, sia come citazione diretta, sia come riferimento non detto. Perché Botero veniva dalla Colombia, aveva studiato in Francia, aveva vissuto in America e in Spagna, lì aveva conosciuto e studiato le avanguardie, aveva frequentato le mostre d’arte contemporanea e si era informato su tutte le novità, però era e rimaneva innamorato di Giotto, era innamorato di Botticelli, era innamorato di Piero della Francesca, era innamorato di Raffaello.
L’altro elemento imprescindibile nel suo lavoro è la narrazione: in Botero c’è sempre una storia da leggere, una vicenda da scoprire, c’è sempre un racconto che ha a che fare con la storia passata, con gli stilemi della grande arte rinascimentale, ma anche con la vita di oggi, con l’amore, con l’amicizia, con le vicende che ci capitano ogni giorno e che rendono la vita bella e degna di essere vissuta. Botero aveva capito, prima di molti altri, che l’artista deve, come in un film, raccontare la vita, le vicende, gli amori, gli incontri. E per farlo, ha inserito un elemento che ha spiazzato tutti, e che lo ha reso riconoscibile da chiunque, il colpo di genio: ingrossare ogni cosa. Tutti riconoscono Botero perché la giovane donna diventa una giovane donna grassa, la chitarra diventa una chitarra grassa, la pera diventa una pera grassa. Questa è la sua idea, la sua formidabile intuizione, riprendere quello che era stato rappresentato nella grande pittura, da Giotto fino a Michelangelo, e passarlo al vaglio dell’ingrossamento, del volume. In questo modo ha saputo raccontare tutto senza cadere mai nel già visto, nel già detto, ha raccontato l’amore, l’ozio, il piacere, il divertimento, la religione, la corrida, il circo, la tavola, tutto: il bene e anche il male, come quando ha messo in scena le torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Botero in questo ha scavalcato tutti i pittori astratti, ha creato una forma per cui tutti lo identificano, le forme sono stilizzate e rese puro volume, e tuttavia tutti possono godere anche delle storie che racconta. Perché le sue forme sono belle, sono godibili, sono piacevoli e riconoscibili, sono morbide, ci accolgono e ci vengono incontro, ci invitano a sorridere, a essere felici. Nessun artista del Novecento ha saputo raccontare la vita e la felicità come Botero.
Botero è il pittore della felicità, è il pittore che noi guardiamo per godere di quello che ci racconta, per godere di una storia, proprio come leggiamo un bel libro di favole: Botero ci dice quello che noi abbiamo dentro, ci racconta una favola bella. È la favola bella di Botero. In Botero c’è la vita e la felicità, e allora viva la vita, viva Botero, viva la felicità!