“Sono un archeologo ed un antropologo surrealista”. Intervista ad Andrea Cusumano

Andrea Cusumano si racconta in occasione della sua ultima personale al Loggiato di San Bartolomeo di Palermo

Per oltre trent’anni ha collaborato con Hermann Nitsch, il suo lavoro è stato esposto in prestigiose sedi internazionali, è stato professore associato a Londra e Assessore alla Cultura a Palermo. Artista dalla personalità poliedrica, Andrea Cusumano, porta avanti ormai da diversi anni una ricerca sperimentale, il più delle volte site-specific, che indaga le molteplici relazioni tra il teatro e le arti visive.

La sua poetica si sviluppa attraverso l’uso di varie discipline – pittura, scultura, installazioni ambientali, live art, spettacoli teatrali – ma il suo vero obiettivo sta nello ïato, in quella tensione mistica che si genera tra l’immagine e l’azione, tra la pittura e la performance.

Al Loggiato di San Bartolomeo di Palermo Andrea Cusumano espone fino al 27 ottobre le tracce delle sue sperimentazioni e delle sue performance. La mostra dal titolo “Pittura e Rito” ( “Andrea Cusumano – Pittura e Rito” è organizzata da Fondazione Sant’Elia, Città Metropolitana di Palermo e Qmedia, con la collaborazione di Nitsch Foundation, Nitsch Museum e Ars Nova – Associazione Siciliana per la Musica da Camera) è incentrata sul rapporto tra la sublimazione della performance e la carnalità della materia pittorica. 

Manufatti artistici e grandi tele sono concepiti come atto sinestetico in cui le performance diventano tele – come in Tragodia Atto IV – e le tele diventano performance – come in Buen Retiro iniziato nel 2004 ed ancora oggi in divenire. 

Sono frammenti di un discorso (TRAGODIA – ATTO IV Ostrakon) a volte stratificato negli anni, oppure testimonianze di ciò che è rimasto (6 HOURS, 2 SCORES, 12 ROOMS), sono il risultato di un percorso che inizia sempre da una ricerca per poi arrivare ad una spontanea ed emotivamente coinvolgente celebrazione della vita, mutuata da gestualità rituale e drammaturgica.

In Cusumano la dimensione olistica e il tema della trasformazione rituale della performance in oggetto pittorico sono certamente vicini all’approccio di Nitsch, tuttavia i risultati artistici ed estetici sono molto diversi da quelli del suo Maestro. Frutto di un’intensa ricerca, il lavoro di Andrea Cusumano è prevalentemente introspettivo, al contrario di quello di Hermann Nitsch, prevalentemente legato a tematiche esistenziali e sociodinamiche.

Per conoscere più da vicino questo artista poliedrico, eccovi il risultato di un’interessante conversazione avuta con lui passeggiando tra le splendide sale del Loggiato di San Bartolomeo.

Per prima cosa vorrei che ci parlassi del tuo rapporto con Hermann Nitsch con cui hai collaborato per oltre 30 anni

Il mio rapporto con Hermann Nitsch ha avuto diverse sfaccettature, prima sono stato suo studente all’accademia di Salisburgo, poi suo assistente personale in studio, quindi in accademia, e poi sono diventato il direttore d’orchestra dell’Orgien Mysterien Theatre, che ho diretto per circa 20 anni, in fine suo collega. Eravamo molto amici, ci vedevamo costantemente, sua moglie Rita è la madrina di battesimo di mio figlio e lui è stato padrino del mio primo matrimonio.

foto Carola Arrivas Bajardi

Quindi Hermann Nitsch, il più radicale degli azionisti viennesi – la sua è stata definita un’”estetica dell’orrore” in maniera, forse, troppo superficiale -, nel privato era una persona affettuosa che curava le amicizie, pur avendo un’immagine pubblica direi quasi “splatter”.

Il lavoro di Nitsch ha certamente degli aspetti cruenti, se vuoi anche delle immagini violente, ma è un lavoro molto complesso il cui fine ultimo è la celebrazione dell’esistenza. Vi è in questo anche un’accettazione della dimensione catabolica nella natura, ma il fine ultimo è la gioia incondizionata per la vita.

Più genericamente direi che un’artista che racconta la violenza, non necessariamente è violento. Nel lavoro di Nitsch il fatto di avere utilizzato sangue o carcasse di animali si è prestato certamente a critiche e incomprensioni. Tuttavia egli racconta, descrive, interpreta la realtà in tutti i suoi aspetti, positivi e negativi, dai fiori ai cadaveri. Penso che definire un’artista violento sulla base della sua arte sia sbagliato, identificare poi la personalità di un’artista con le immagini che produce è paradossale.  Gli artisti rilanciano la realtà, la interpretano senza alcuna protezione.

Dove vedi la violenza nella società attuale?

Le persone tra le più violente che ci circondano in questo momento sono al governo di qualche paese o vengono invitati da capi di stato. Viviamo in una società pudica, nel senso più becero del termine. È una pudicizia frutto di pura ipocrisia. Continuiamo ad esempio ad imporci sul resto del mondo anche con metodi violenti, e poi pretendiamo che alle “nostre” biennali si parli di decolonialismo.

I tuoi lavori, nonostante siano il frutto di un’improvvisazione, hanno un risultato estetico notevole.

L’improvvisazione, o più semplicemente il caso, è la prima regola della creatività. La prima legge della natura. È la spontaneità, la purezza del gesto. C’è comunque un pensiero e una ricerca a monte, un po’ come un atleta che si allena per ore e poi improvvisa una gara di pochi secondi.

In TRAGÖDIA-ATTO IV hai messo in relazione 4 miti tragici dell’antica Grecia con 4 riti del Kerala. La dimensione performativa di questi testi è il tentativo di recuperare una dimensione olistica del teatro nel mondo occidentale? 

Questi testi sono il frutto di una ricerca condotta in Kerala. Alcuni riti del Kerala hanno più o meno la stessa età della tragedia greca, in questi riti ho trovato le radici del nostro teatro, inteso come opera d’arte totale. Sono performances la cui drammaturgia non è legata esclusivamente al testo, ma al colore, alla musica, alla danza, allo spazio.

Per questa ragione ho legato ognuno di questi miti a delle performance indiane. Non escludo che il teatro greco potesse essere effettivamente più vicino al teatro Kathakali che non al nostro modello impostato principalmente sul testo, sulle parti e sui personaggi da interpretare.

In 6 HOURS, 2 SCORES, 12 ROOMS (Nitsch museum, Mistelbach, 2024) si vede perfettamente la trasformazione della performance in oggetto pittorico, come nasce quest’opera?

L’opera nasce da una storia personale legata ad una lettera di mio nonno, o forse è la storia di un’intera generazione di giovani che abbandonavano le famiglie per seguire un becero ideale nazifascista e per la guerra, senza farvi più ritorno. È una sublimazione rituale della lettera che mio nonno tedesco ufficiale della Wehrmacht, scrisse a mio zio dal fronte Russo in piena Seconda Guerra Mondiale. Un rito di trasformazione delle mie memorie transpersonali in una grande tela. E la performance è il medium.

Nelle tue opere fai spesso riferimento al passato, qual è il tuo rapporto con la contemporaneità?

Sono un’amante della contemporaneità che è convinto che non si inventi mai nulla. Per cui per me è molto importante attingere dal passato. Sono sempre stato un divoratore di libri, di musei, di mercatini delle pulci, perché fondamentalmente mi ispiro molto di più al passato che non al presente. Non amo parlare di tematiche contemporanee, lo trovo spesso didascalico. Il mio lavoro è legato fondamentalmente a tematiche di carattere epistemologico, mi interessa indagare i processi di genesi della conoscenza. Il sapere si percepisce nel “qui ed ora”, ma si comprende solo nella sua evoluzione. Capisci meglio la relatività dei nostri totem culturali.  

Riconoscere tracce di una civiltà passata che vivono nella contemporaneità mi eccita, ma queste cose mi piace anche inventarle. Sono un archeologo ed un antropologo surrealista.

Con il dilagare della cultura tecnocratica l’approccio alla conoscenza è diventato prevalentemente di tipo tecnico-scientifico oggi anche in nome di una presunta attenzione ai temi ambientali, mentre si assiste a una crescente disattenzione verso quelli umanistici. Non pensi che avremmo bisogno di un nuovo umanesimo, un “umanesimo ecologico” che ci aiuti a recuperare la nostra dimensione umana e, dunque, il nostro rapporto con la natura?

È uno dei motivi per cui il mio lavoro non si occupa esplicitamente dei macro temi della contemporaneità. Personalmente ho poco interesse a sviluppare artisticamente problematiche ambientali o di genere, il che non esclude il mio interesse o la mia attenzione a questi temi. Mi appassiona invece l’arte che evoca, non quella che ragiona sulle cose. Credo, forse ingenuamente, che la mancanza di poesia nel nostro mondo sia direttamente proporzionale alla crescita della cosiddetta “intelligenza”. Oggi un artista coraggioso dovrebbe parlare delle cose più inutili, lasciando agli altri l’onere di parlare di decolonialismo, ecologia, orientamento sessuale, e via dicendo. Il genio non è mai abitato dalla moda. 

Tu lavori molto con l’intelligenza emotiva, che cosa pensi di quella artificiale?

La civiltà occidentale ormai è basata sul problem solving noi siamo convinti che l’intelligenza sia replicabile da una macchina perché partiamo dal principio che l’intelligenza sia l’applicazione della risoluzione dei problemi. Per cui l’intelligenza artificiale può diventare più brava dell’uomo a risolvere i problemi. Il problema vero è però che l’intelligenza umana non è un’intelligenza da problem solving

Con un colpo di spugna vorremmo cancellare la dimensione umana (che è un abisso, un universo di dimensioni), semplificandola a livello cognitivo e questo è un errore madornale di carattere epistemologico ed è anche uno dei motivi per cui sono affascinato dalle culture orientali, che questo errore non lo hanno ancora fatto. 

L’intelligenza è nel corpo, non è collocata nel cervello. Il nostro corpo è un sistema olistico ed il cervello e solo parte di una struttura più complessa.  Credere che basti semplicemente pensare una cosa per averla fa perdere il contatto con la realtà. L’idea di non far più scrivere a mano i bambini, di distaccarsi dalla manualità, è così radicale da provocare un cambiamento antropologico

Qual è oggi il compito dell’artista e che cosa senti l’urgenza di raccontare?

Penso che il compito di un artista non sia né essere migliore degli altri, né fare gli altri delle persone migliori, ma piuttosto contribuire al discorso imperituro dell’umanità, e l’umanità ha dentro di tutto. Come artista sento l’urgenza di raccontare, anche a generazioni più giovani, che un quadro non è solo immagine ma è anche gesto. Ecco questo forse può sembrare meno urgente rispetto ad altri temi della contemporaneità, ma per me è fondamentale che si sappia: un quadro è un gesto.

Che cos’è per te l’ignoranza?

È la mancanza di comprensione della complessità delle cose. Un intellettuale come Edgar Morin ci racconta del rischio insito nel vivere in un mondo sempre più complesso, che viene letto in maniera sempre più semplicistica. È l’incapacità di cogliere la poesia delle cose, vivere senza poesia equivale ad ignorare il senso della vita.

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