La produzione artistica di Helen Frankenthaler rende necessaria una riflessione sul colore e il suo ruolo sulla superficie pittorica. La mostra a lei dedicata a Palazzo Strozzi, Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, inaugurata il 27 settembre e visitabile fino al 26 gennaio, espone cinquant’anni dell’operato dell’artista americana, ripercorrendo le tappe della sua vita e i legami stretti con alcuni dei più importanti esponenti della cultura artistica del tempo. Sotto questo aspetto, Douglas Dreishpoon, curatore dell’esposizione, ha affermato che il percorso espositivo è stato studiato per mettere in mostra la sua continua evoluzione e le relazioni con amici e colleghi.
Infatti, la mostra di Palazzo Strozzi ospita in dialogo tra loro, nelle varie sale, opere di Frankenthaler e di Pollock, Rothko, Motherwell, David Smith, Morris Louis, Kenneth Noland, tra gli altri, per riflettere sui forti legami e le contaminazioni – arricchite da un denso corpus epistolare nel catalogo – che innervavano la cultura artistica americana dagli anni Cinquanta in poi.
La mancanza di regole spinge verso il continuo cambiamento: le macchie di colore, gli schizzi, la poetica dei gesti e delle influenze di artisti come Pollock, hanno un forte impatto sulla produzione artistica di Frankenthaler, in cui il colore si fa canale favorito di una propensione alla mutevolezza, connessa e aperta anche alla ricerca del fallimento. Il colore, in quanto elemento di una grammatica che si ibrida con la lingua dell’astrattismo, è declinato in una forma individuale e originale. Le modalità di costruzione dell’opera, per quanto seguano l’unica regola che non esistono leggi a cui sottostare, creano una lingua nuova e personale, in cui l’astrazione è mezzo per la produzione di un manufatto ambiguo, sulla soglia tra percezione figurativa e non figurativa.
La stessa Frankenthaler, in alcune conversazioni con artisti o intellettuali, si è sempre dimostrata nebulosa nel descrivere precisamente la sua opera. In un’intervista, la critica d’arte femminista Cindy Nemser le domanda se ci fosse un legame con la natura nella sua pittura. L’artista così rispondeva: “credo che ci sia, ma non attraverso uno sforzo cosciente… spesso le associazioni alla “natura” sono utilizzate come supporto… a cui si aggrappano le persone che vogliono un indizio su come leggere la superficie di un’immagine astratta“.
Il percorso espositivo si organizza per decenni, aprendosi tuttavia con quattro opere degli anni Settanta. La monumentale tela Moveable Blue (1973) mostra un colore potentemente diluito dalla trementina, con cui l’artista perfeziona la tecnica soak-stain (imbibizione a macchia) elaborata negli anni Cinquanta. Una tela di tali dimensioni risente dell’influenza di Pollock: poggiata a terra, gli oggetti utilizzati per la sua creazione sono molteplici, la gestualità corporea è tanto importante quanto gli strumenti, mentre l’informe prende il sopravvento per campi di colore che si contaminano tra loro. La grande macchia blu che domina la tela si espande e contamina le altre campiture, in continuo mutamento e con un margine di “volontà” che sfugge all’artista.
Questo tipo di tecnica, propria degli esponenti dell’Espressionismo astratto, richiama l’opera di Morris Louis, Aleph Series V (1960), presente in una delle sale successive. Qui, il movimento della tela, piuttosto che la mano dell’artista, determina l’aspetto del dipinto. La vita di queste opere è liquida, come per Fiesta e Untitled (1973). L’utilizzo di solventi libera la tela dall’oppressione di una vernice acrilica o di un olio puro, in linea con i dettami modernisti di Clement Greenberg, il quale teorizzava l’idea di campi di colore come risposta alla tradizionale “pittura da cavalletto”.
Frankenthaler è una pittrice di campi di colore, seguendo in particolare dagli anni ’60 in poi le ispirazioni della pittura di Mark Rothko. L’astrattismo delle sue tele trasmette un messaggio subliminale, capace di esprimere scene evocative senza svelarsi, collegando il linguaggio astratto a quello della poesia.
In particolar modo, in Number 14 (1951) di Jackson Pollock, Frankenthaler riscontra la possibilità di un’immagine narrativa, quasi surrealista, potentissima proprio perché a metà tra una possibile raffigurazione e l’astratto. Il disegno, in quanto scheletro che regge i suoi dipinti, crea un linguaggio simbolico affine a quello di Kandinsky o di Mirò, con una “astrazione biomorfica intuitiva“, dove il fare l’immagine resta una possibilità sempre aperta e mai conclusa.
Procedendo nella mostra si entra nella sala più suggestiva, dove sono esposte alcune delle opere più significative degli anni Sessanta. Alassio, Cape (Provincetown), Tutti Frutti e The Human Edge dialogano con le sculture di Anne Truitt e David Smith, alcuni tra gli amici più intimi di Helen Frankenthaler, con cui condivideva un’immaginazione libera da regole. In questa sala vi è una dicotomia tra le limitazioni imposte dalla geometria e lo sfumare dei confini nell’etereo. The Human Edge e Tutti Frutti, affiancate sulla parete, sono l’emblema di questo contrasto. La prima è composta da elementi rettangolari e squadrati, ben delimitati nei margini di colore, dalle tinte corpose e ben definite che lasciano spazio a grandi campiture di bianco; la seconda è il trionfo del colore, che si fonde in morbide nuvole cromatiche oltre ogni rigidità. Non deve sorprendere che l’artista abbia dipinto due opere così diverse a un anno di distanza l’una dall’altra (1966-1967). È proprio questo che si intende con “senza regole”: la possibilità di essere in contraddizione con il nostro stesso procedere.
In Alassio, lo spazio pittorico è lasciato in gran parte non trattato dal colore, si possono vedere le impronte lasciate dalle scarpe dell’artista che monta sulla tela per crearne la composizione attraverso schizzi e macchie. L’opera è puro movimento corporeo, in un’invenzione momentanea di forma e composizione. Il titolo riconduce a un’esperienza biografica, quando Frankenthaler, insieme al marito (e artista a sua volta) Robert Motherwell, affittò una villa presso la località ligure. Lo spazio, libero dalla pesantezza di una pittura più condensata, da cui emana una grande luminosità, è la manifestazione di un bel ricordo, una nuova “gioia di vivere”.
L’ambiguità permane anche negli anni Settanta, periodo prolifico per l’artista che si pone il problema della modalità di realizzazione dei dipinti, dell’attivazione della forma attraverso lo spazio e il colore, della superficie attraverso la linea. La nuda tela inizia a essere inghiottita dagli acrilici e dalla tempera a olio: Ocean Drive West #1 (1974) è sintesi delle possibilità del colore nello spazio. Il quadro è completamente sommerso da un blu ceruleo, innervato da linee bianche, rosse e nere. Il linguaggio astratto viene perfezionato in una declinazione individuale in cui quelle linee che attivano la superficie, istintivamente, portano a pensare alla schiuma dell’oceano increspato dal passaggio di barche.
Che siano orizzontali o verticali, creano un bilanciamento dell’esperienza priva di confini, nell’etereo fluttuare di superfici sconnesse e indefinite. In Plexus (1976), l’artista ricrea quelle “zip” che Barnett Newman aveva utilizzato nella sua maggiore produzione pittorica. Il dibattito avviato negli anni precedenti sulla crisi della geometria, che porta alla perdita del punto di vista soggettivo e riduce tutto alla meccanicità, è ancora attuale e Frankenthaler decide di utilizzare uno dei suoi elementi essenziali, la linea retta o il segmento, per romperne le regole.
Le ultime sale della mostra ci portano nella piena maturità dell’artista, dove la domanda che porta avanti la sua produzione pittorica e scultorea è “cosa vuol dire invecchiare come artista?”. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta Frankenthaler si lascia ispirare dai dipinti dei grandi maestri come Tiziano, Velázquez, Piero della Francesca, Manet e Rembrandt. Lo studio della luce nelle loro opere è ciò che le interessa maggiormente, andando alla ricerca delle immagini “astratte” riscontrate nei dettagli delle vesti e dei personaggi che provocavano la visione di mondi alternativi. La tonalità, il riempimento della tela e la sparizione del fondo grezzo sotto i colori acrilici sono ciò su cui concentra la sua ricerca in opere dai titoli evocativi come Eastern Light, Cathedral e Star Gazing. Quest’ultima, in particolare, testimonia una dimensione più cosmologica: la complessità tecnica aumenta, il colore inizia ad addensarsi e la luce diventa la protagonista in un gioco di sparizione e apparizione.
In mezzo a questa solidificazione, tuttavia, negli anni Novanta i dipinti su carta sconvolgono l’orientamento alla cosmologia, all’addensamento e alla sparizione della tela grezza sotto gli strati di colore: Solar Imp (1995) mostra il fondo cartaceo, gioca con nuovi strumenti, come la spugna per imprimere rettangoli colorati, mostrando un netto contrasto espositivo con il resto delle opere esposte. La saturazione del colore è giunta al massimo in queste ultime sale: Borrowed Dreams ci riporta alla mancanza di spazio per l’azione, rompendo nuovamente le regole, in un horror vacui continuo per cui esiste solo il colore puro, un acrilico modellabile in venature e rigonfiamenti.
L’ultima opera, Driving East (2002) riassume il senso di irreversibilità, testimoniando questo addensamento della materia che gradualmente si blocca. Il cambiamento sulla tela è sempre in atto, l’errore è comunque contemplato, ma quello che vediamo non testimonia una fusione automatica tra colori e toni diversi, quanto un accumulo cromatico che si deposita sulla tela, nell’ambiguità tra il mantenimento dell’eterna possibilità e la sua immobilizzazione. Tutto questo richiama il viaggio di una vita che, avviandosi alla sua conclusione, non cerca tanto di cambiare togliendo, ma conservando.