In questa conversazione con Alberto Fiz, Paolo Campiglio racconta la sua mostra al Musée Soulages e anticipa i contenuti della biografia dedicata al maestro dello spazialismo.
Intervista di Alberto Fiz
Per la sua proverbiale eleganza Iris Clert, mitica gallerista francese, definiva Lucio Fontana un “Dongiovanni autunnale”. Piaceva alle donne ma nonostante le sue molte relazioni il suo vero amore è stata Teresa Rasini, meglio nota come Teresita, che sposò nel 1952 dopo che lei lo attese a Milano per sette anni a causa dell’esilio in Argentina. I misteri intorno alla vita del più influente artista del dopoguerra rimangono ancora molti e saranno svelati nella sua prima biografia scritta da Paolo Campiglio, tra gli studiosi più attenti dell’artista, nata dopo una ricerca ventennale.
A pubblicarla nei prossimi mesi sarà Johan & Levi e le rivelazioni non mancano. Come quella volta del 1967 che Fontana andò su tutte le furie quando nel Padiglione italiano all’Expo di Montreal Emilio Vedova, tra i protagonisti di quella manifestazione, si mise a disquisire con le televisioni di suono, luce e ambiente dimenticando che quei concetti erano già apparsi vent’anni prima nel Manifesto Blanco scritto da Lucio. Generoso con i giovani artisti, di cui spesso era il solo acquirente delle loro opere, il maestro spazialista non ebbe una vita facile e giunse al successo solo nell’ultimo decennio della vita (il suo maggior sostenitore non è stato un gallerista ma Carlo Damiano, un manager della Pirelli a Londra) tanto che nel 1954 alla Biennale di Venezia i suoi concetti spaziali con i buchi furono strappati e vandalizzati. Un Fontana per certi versi inedito e imprevedibile è quello che emerge dalla biografia, così come dall’ampia mostra “Un futuro c’è stato”, proposta sino al 3 novembre a Rodez, in Francia, nella sede del Musée Soulages, curata da Campiglio insieme a Benoît Decron.
Una rassegna da cui emerge l’attualità di un artista che il futuro ha saputo vederlo e interpretarlo come pochi altri, diventando un punto di riferimento essenziale per i movimenti nati in Italia e in America alla fine degli anni Sessanta. Ancora oggi, i suoi Ambienti spaziali, ancor più dei suoi tagli, sono imprescindibili per gran parte della ricerca plastica contemporanea. Ma ecco che, in questa intervista, i segreti della mostra francese s’intrecciano con la vita del grande artista.
Lucio Fontana, un’icona dell’arte internazionale. Ma siamo sicuri di conoscerlo bene? O per la maggior parte degli interlocutori è solo l’autore dei tagli che si dividono in base al colore della superficie. Insomma, mi spieghi in estrema sintesi, chi è davvero il Maestro dello spazialismo?
Enrico Crispolti, che ha studiato Fontana negli ultimi cinquant’anni e che ha dato vita a più di un catalogo generale della sua opera, per primo ha dimostrato che il suo mondo creativo non è riducibile all’icona che tutti conoscono: il “taglio”. Io, che accolgo il testimone dello storico dell’arte, sono profondamente convinto che la formula, seppure risolutiva ed emblematica, del Concetto spaziale, non sia che il risultato finale di un travaglio creativo durato almeno trent’anni in cui l’artista ha cercato, talvolta subendo forti delusioni, una via d’uscita rispetto all’arte del suo tempo, una strada in grado di contrastare le certezze acquisite.
Quali novità emergono dalla mostra che hai curato insieme a Benoît Decron per il Musée Soulages a Rodez in Francia?
La prima novità è il problema della forma e del suo superamento. Si tratta di una questione che Fontana affronta sia nella materia (la terra della ceramica o il gesso), sia nell’assenza di materia, ad esempio in un segno graffiato su una superficie o in una struttura astratta. In questo caso l’arte degli anni Trenta si lega con quella degli anni Cinquanta. In uno e nell’altro caso il suo è un gesto che tende a superare l’idea di rappresentazione. Un altro tema evidenziato dalla mostra è il cambiamento di rapporto con il mondo naturale e Fontana, sin dagli anni Quaranta, considera l’atomo come energia prima. Dunque, si comprende bene che il suo “concetto spaziale” ovvero la formula che egli trova nel 1949, non è semplicemente una tela forata, ma l’energia segnica che unisce il microcosmo con il macrocosmo. Fontana ripeteva come un mantra: “Io buco. Passa l’infinito di lì, passa la luce“. In definitiva, Fontana era consapevole che l’infinito non è “altro” rispetto a noi, ma siamo tutti parte di un’unica realtà.
In mostra viene dato molto spazio agli Ambienti spaziali con la ricostruzione del rivoluzionario lavoro al neon esposto alla Triennale di Milano nel 1951. Non pensi che l’esperienza plastica di Fontana sia stata fondamentale per i movimenti nati negli anni Sessanta?
Abbiamo avuto la fortuna di montare l’unico Ambiente spaziale conservato in originale, quello realizzato da Fontana in un solo giorno nel 1967 per la Galleria del Deposito. Fin dal primo Ambiente spaziale a luce nera (la luce di Wood) concepito nel 1949, il superamento della pittura e della scultura portava con sé la necessità di inventare una nuova espressione in grado di emozionare lo spettatore distogliendolo dalle sue preoccupazioni quotidiane. In quell’ambiente oscurato già si perdeva il senso del tempo e dello spazio comuni per acquisire l’esperienza di uno spazio adimensionale. Anche l’arabesco al neon sospeso al soffitto dello scalone della IX Triennale del 1951 era la dimostrazione pioneristica che si poteva trasmettere il senso dello spazio alla gente comune con un gesto irrazionale, un segno di luce sospeso a un soffitto azzurro, addirittura usando il neon che allora veniva impiegato solo per le insegne pubblicitarie. Oggi, poiché quel neon è andato distrutto, la ditta Clod, che ha i disegni tecnici perché li realizzò allora, ricostruisce all’occasione, con il beneplacito della Fondazione Fontana, l’ambiente di tubi al neon, e l’effetto è ancora grandioso.
Accennavi in precedenza alla relazione tra il Fontana degli anni Trenta e quello degli anni Cinquanta. Puoi approfondire questo concetto?
Il fil rouge è la dimensione dell’utopia, tipica dell’avanguardia, ma vi è anche la ricerca di un “altrove” spazio-temporale. All’inizio del suo percorso, Fontana individua l’altrove nella dimensione senza tempo dell’uomo primitivo, prima ancora della storia: immagina esseri umani, uomini e donne, agli albori del creato. Ma è un primo tentativo di uscire dal suo tempo, in cui il fare arte significava soprattutto riferirsi alla storia e alla cultura. Poi, dopo la parentesi degli anni Quaranta in Argentina, in cui effettivamente l’artista vive in una condizione psicologica e culturale molto stressante, nel dopoguerra questo altrove lo individua nel cosmo, perché per lui è il futuro. Al cosmo però giunge solo dopo essere passato per l’energia dell’atomo. Ben presto si accorge che sia l’uno, il primitivo, che l’altro, il futuro del cosmo, sono dei luoghi mentali, metafore di una condizione esistenziale che egli immagina in un tempo ancora da venire. Sono emozionanti e insieme struggenti le parole lasciate in una delle ultime interviste, nel 1967, a Carla Lonzi. Fontana era convinto che l’uomo del futuro si sarebbe allontanato gradualmente dalla propria dimensione materiale, anche fisica, alimentandosi non più di animali, non avrebbe più avuto la necessità di combattere guerre e sarebbe diventato pura natura, tutto dedito alle sensazioni, “come un fiore”. Forse questo allontanamento graduale dal mondo fisico, in parte, è avvenuto, grazie alla rivoluzione tecnologica e mediale, ma purtroppo l’uomo oggi vive ancora nel sangue e le guerre sembrano una condizione intrinseca alla società umana.
Nel 2025 la casa editrice Johan & Levi pubblicherà la tua biografia di Fontana a cui lavori da molti anni. Quali sono gli aspetti più sorprendenti della sua vita?
Non esisteva un libro biografico su Fontana, anche perché l’artista non amava parlare di sé essendo più preoccupato della sua opera. Ho provato a scriverlo, in tanti anni di studi e ricerche. Contrariamente a quanto si potrebbe credere di un grande maestro, Fontana era umile, di indole generosissima, un uomo di grande simpatia che si esprimeva con uno strano idioma tra il dialetto milanese e lo spagnolo. Non era certo il prototipo dell’artista intellettuale, nonostante i suoi proclami teorici, o lo spocchioso che vive nella sua torre d’avorio, come sono oggi certi antipatici creativi. Era un intuitivo finissimo. La sua giornata tipo, negli anni Sessanta, era assolutamente “normale”: sveglia al mattino presto (intorno alle 6) per raggiungere coi mezzi pubblici lo studio di Corso Monforte senza intoppi, immersione creativa nella cripta del suo studio, in rigorosa solitudine, fino alle 13, pausa pranzo al Girarrosto, un ristorante piuttosto economico vicino allo studio, e al pomeriggio ricevimento di galleristi, fotografi, direttori di museo, artisti. Tutte le fotografie che lo ritraggono mentre esegue il “taglio” sono semplici trucchi (ce lo dice Ugo Mulas), perché Lucio non era in grado di creare le “attese” se qualcuno gli ronzava attorno, data la concentrazione che richiedevano. Qualche sera andava all’aperitivo al Bar Jamaica o all’inaugurazione di una mostra di giovani (allora erano Giulio Paolini o Luciano Fabro), magari era l’unico acquirente delle loro opere. Poi tornava sempre a casa a cena dalla sua amata moglie Teresita. Questo è il Fontana anni Sessanta, quando Lucio inizia ad essere ritenuto un artista internazionale e assiste alle prime vendite dei suoi Concetti spaziali, perché prima non li voleva nessuno. E pretende subito che abbiano quotazioni alte, proprio perché nel difficile decennio precedente li osteggiavano e addirittura alla Biennale del 1954, quando aveva esposto per la prima volta i suoi “buchi”, li avevano vandalizzati e strappati. Fautore della sua fortuna internazionale non è un gallerista, ma un grande amico, manager della Pirelli a Londra, Carlo Damiano, suo primo vero collezionista che fa da tramite per esclusive mondiali con gallerie importanti tra cui la Marlborough.
Si parla però degli ultimi sette anni della sua vita. Il libro, invece, racconta molte altre novità, aspetti inediti, come il giovanile rapporto con il padre, un uomo tutto d’un pezzo che non comprendeva l’inquietudine di quel figlio primogenito, la lotta in trincea nella Prima Guerra mondiale, la solitudine nell’altra lotta, quella artistica, in nome di un ideale così astratto e fantasioso, le disgrazie passate in Argentina, quando negli anni Quaranta era ritenuto un fascista italiano e quindi osteggiato dalle frange intellettuali di sinistra dei rifugiati spagnoli, e contemporaneamente giudicato dai nazionalisti di destra un traditore della Patria argentina, perché aveva scelto di crescere come artista nell’Italia degli anni Trenta. Per fortuna Fontana a Buenos Aires sceglie la strada dell’insegnamento in Accademia e lì inizia un nuovo periodo fecondo di scambio intellettuale e creativo coi giovani come Pablo Edelstein: era un maestro anticonvenzionale capace di mettere in crisi i dettami del mestiere tramandati da generazioni, ribaltandoli. Raffaele Carrieri affermava che la lotta di Fontana è sempre stata contro le sue stesse mani, contro le ragioni del suo operare, perché solo mettendo in discussione quello che per indole gli veniva facile, tipo il creare una figura umana in argilla nel tempo di una Luky Strike, poteva sperare di andare “oltre”.
Attraverso la biografia si intende con più facilità la natura del suo credo, una questione non banale che nessuno dei contemporanei prendeva sul serio, eccetto gli amici poeti come Leonardo Sinisgalli o Salvatore Quasimodo, che come lui avevano un intuito speciale per le astrazioni mentali.
È vero che la sua sala personale alla Biennale di Venezia del 1966 è stata preparata in una sola notte?
Si tratta dell’Ambiente spaziale ovale con tagli che ha vinto il Gran Premio della Pittura alla Biennale di Venezia del 1966. Credo che sia stato realizzato molto velocemente. Carlo Scarpa se ne era occupato dal punto di vista architettonico. Fontana aveva avuto diverse idee, ma alla fine era sceso al compromesso di una sala tutta bianca ovale entro cui erano inseriti delle specie di “confessionali”, strutture in legno bianco che presentavano ciascuna un taglio unico su fondo bianco, non visibile immediatamente. L’apparizione del taglio, con la concentrazione Zen necessaria, avveniva girando attorno a ciascuna struttura in un percorso un po’ disorientante che alla fine restituiva quel senso spirituale cercato da Fontana.
Le foto pubblicate in questo articolo sono tratte dal catalogo “Lucio Fontana, Un futuro c’è stato“, edito da Gallimard in occasione della mostra curata da Paolo Campiglio con Benoît Decron, aperta fino al 3 novembre a Rodez, in Francia, al Musée Soulages.
1 – Continua nella prossima puntata: