I temi del riuso, del riciclo, dell’eco-sostenibilità, del rispetto dell’ambiente e della fragilità dei suoi equilibri sono i temi affrontati nella mostra in corso alla Fondazione Dino Zoli di Forlì fino al 24 marzo intitolata “Utopiche seduzioni. Dai nuovi materiali alla Recycled Art. Da Piero Manzoni alle ultime generazioni”.
“La Fondazione Dino Zoli è nata nel 2007, come museo di arte contemporanea”, ci dice Monica Zoli, socia della Dino Zoli Group, “ed è proprio con l’arte che cerchiamo di veicolare il messaggio della necessità di cambiare il nostro modo di vivere verso comportamenti eco sostenibili, questo naturalmente influenza inevitabilmente anche le nostre attività imprenditoriali, il nostro progetto è molto ampio ed è legato appunto alla sostenibilità. L’idea di realizzare “CHANGES” nasce oltre un anno fa con l’obiettivo di condividere, con collaborazioni interdisciplinari, conoscenze ed esperienze nate in vari ambiti, con più soggetti e linguaggi diversi, per stimolare una presa di coscienza collettiva la più ampia possibile. Prende vita così la mostra Utopiche seduzioni con le opere di straordinari artisti, messaggeri di vivifiche intuizioni”.
L’esposizione è infatti parte del progetto “CHANGES. Il cambiamento come urgenza della sostenibilità”, che intende approfondire il tema ambientale anche attraverso una serie di talk, secondo un approccio non solo estetico, ma anche etico, con riferimenti al mondo della ricerca, della scienza, della tecnologia, della storia, della filosofia e della sociologia.
In mostra, sono esposte opere realizzate con diversi media, dalla scultura con Afran, Valerio Anceschi, Alessio Barchitta, Andrea Cereda, Cesare Galluzzo, Margherita Levo Rosenberg, Lulù Nuti, Anuska Sarkar a opere bidimensionali incentrate sul valore sensibile delle superfici con Lucia Bonomo, Michele Di Pirro, Marina Gasparini, Miriam Montani, Artan Shalsi, dalla fotografia di Roberto Ghezzi, Thierry Konarzewski a interventi site specific e installazioni pensate da Francesca Pasquali, Giulia Nelli, Valentina Palazzari, Sasha Vinci. Il percorso espositivo comprende, inoltre, una selezione di opere di Piero Manzoni, provenienti dalla Fondazione Piero Manzoni di Milano, di Piero Gilardi e di Enrico Cattaneo.
L’esposizione si apre con un meraviglioso Donna e Generale di Enrico Baj, famoso per aver utilizzato diversi tipi di materiali, quali il legno, le stoffe, il meccano, i tubi idraulici, Baj ci consegna una visione mostruosa del mondo, nei materiai da lui utilizzati troviamo un’ecologia del consumo ante litteram e una forte critica sociale.
Tra le opere realizzate site-specific, quella di Francesca Pasquali che con Plot, ha creato una grande installazione tessile coinvolgente e immersiva, concepita come un percorso tra differenti architetture, che invita lo spettatore a percorrerla, ad addentrarsi nelle trame della materia tra gli intrecci di tessuti e cimose in un gioco di associazioni tattili e sensoriali. L’opera cresce e si modifica nel tempo, così il pubblico ha la possibilità di contribuire a questo sviluppo dell’opera scegliendo delle cimose, fornite dalla Dino Zoli Textile.
Nell’opera Non si disegna il cielo – Volterra canto I, Sasha Vinci sottolinea come gli ambienti che ci circondano siano in continua mutazione, come del resto la sua ricerca artistica. L’opera è composta da 21 lastre in alabastro, materiale simbolo della città di Volterra, che riportano l’incisione di un pentagramma musicale e tracciano lo skyline della cava da cui provengono gli scarti utilizzati. Un QRcode permette di ascoltare la musica prodotta dal paesaggio stesso.
Afran, artista italo-camerunense, in Riscossa del sacro riutilizza il jeans, materiale nato per i vestiti da lavoro ed assurto poi a vestito modaiolo, rimandando ai nostri ricordi – chi non ha avuto un paio di blu jeans a cui era affezionato e che non avrebbe mai buttato via? –, così l’artista usa i nostri ricordi e li mescola ai suoi utilizzandolo per le sue maschere africane, eliminando le barriere di genere, economiche e di classe sociale.
“Attraverso le opere in mostra” ci racconta Matteo Galbiati, uno dei curatori, “è possibile valutare quei passaggi epocali, sottolineati e messi in evidenza proprio dai contenuti, dalle ricerche e dalle sperimentazioni, che hanno sottinteso i vari cambiamenti di pensiero e di rotta che, dal Secondo Dopoguerra in poi, si sono riscontrati nell’uso dei materiali con cui fare arte. Volevamo che ci fosse una continua interrogazione attraverso la visione dei lavori su che cos’è, cosa rappresenta, come viene lavorato. Vediamo, infatti, delle opere che sembrano morbide flessuose, che sembrano di seta, ma non lo sono, perché è stata usata la plastica, altre opere di metallo che sembrano estremamente morbide invece sono strutturalmente rigide, ecco c’è questa riflessione continua su come il materiale è e su cosa può diventare.”
Valerio Anceschi, infatti, per creare le sue sculture, usa qualcosa di “inutile”, senza più valore, lo scarto del ferro, ne nascono opere leggere in contradizione con la pesantezza del materiale che predilige. Come Sauro pensata per la mostra Utopiche Seduzioni.
“L’Arte, può aiutarci a comprendere e riflettere, in altra maniera, sui temi forti del nostro presente”, aggiunge Nadia Stefanel, curatore e direttrice della Fondazione Dino Zoli: “oggi ci troviamo di fronte a importanti problematiche ambientali e la nostra selezione è andata ad artisti che interpretano i nuovi e i vecchi materiali in maniera positiva. Questo progetto nasce dall’urgenza di considerare la sostenibilità come l’unica strada per il nostro futuro, per migliorare la qualità della vita a livello globale”.
Alessio Barchitta – altro artista in mostra – si avvale di materiali provenienti dalle discariche che sono lo specchio delle nostre abitudini. In Can’t wait dei cuscini che a primo sguardo appaiono morbidi e colorati, altro non sono che sacchi di cemento e piastrelle rotte.
L’altra opera presente in mostra Shit happens: è un cuscino di velluto, elegante, sofisticato, sopra il quale vi è la testa di un putto barocco realizzata in resina e guano di piccioni.
Lulù Nuti invita, invece, ad avventurarsi nei meandri della memoria, ne è testimonianza l’opera Autoproduction. La struttura (in cemento) è un’apparente spina dorsale, ma la forma richiama l’immagine di un leggio. Sulla cima della scultura è posizionato uno scrigno, al cui interno si trova un piccolo libro che custodisce fotografie di gioielli di famiglia, unite a ricordi di opere realizzate in precedenza dall’artista.
In questo mostra si intuisce come l’Arte abbia, nel corso dei decenni, sempre saputo essere osservatorio privilegiato del proprio tempo e come abbia saputo anticipare tendenze e mode.